Corriere 23.1.16
La tesi del sociologo Alain Turaine
Soltanto la coscienza collettiva può salvare gli individui (e l’arte)
di Vittorio Gregotti
Nelle
ultime settimane dello scorso anno sono stati pubblicati due importanti
libri: uno a firma del celebre sociologo francese Alain Touraine;
l’altro del bravissimo giornalista Federico Rampini che scrivono,
ambedue, da due punti di vista opposti, sulle contraddizioni della
(quasi globale) società contemporanea. Il titolo del primo è Nous sujets
humaines (Seuil, pp. 416, e 24), mentre quello del secondo è L’età del
caos (Mondadori , pp. 328, e 18,50), quest’ultimo sorretto dalla celebre
idea schumpeteriana (ma anche molto americana) di un’età della
«distruzione creatrice», del procedere per discontinuità, come carattere
strutturale del futuro. Anche per l’arte. Tutte condizioni che devono
anche interrogarsi su come salvare il posto di lavoro dall’automazione
globale e (al tempo stesso) la propria cultura dal bombardamento visuale
e dalle sollecitazioni al consumo. E, anche, su cosa possa sostituire
ogni perduta organizzazione sociale.
L’opinione espressa da Alain
Touraine su quelle che possiamo definire le condizioni del futuro si
fonda invece sulla possibilità di uscire dal caos del presente in cui la
scala dei valori oggi praticati sembra voler sommergere ogni
possibilità futura. Ed è offerta da quello che egli definisce «il
ritorno al soggetto» inteso come unica risposta che può proporre una
restituzione dei rapporti umani quale fondamento di una nuova società.
Opponendosi alla «distruzione della modernità» (che ha avuto il merito
di farci passare dal sacro al soggetto ) da parte dei modernizzatori che
vogliono invece utilizzare i suoi principi a loro profitto esclusivo.
Chi
sono tali modernizzatori? È il capitalismo finanziario globale «che
divora la modernità per facilitare il suo appetito di dominio», mentre è
proprio la modernità della coscienza collettiva che è in grado di
salvare il soggetto.
Quale è il significato di questo dibattito
per l’architettura? Sappiamo bene che l’architettura dell’edificio,
della città e del territorio quale pratica artistica sembra nei nostri
anni aver rapidamente perduto ogni interesse collettivo. In particolare
da quando essa è divenuta parte di una scienza della comunicazione
visuale: sia per i suoi interessi mercantili, sia per l’esibizione
concreta dei suoi poteri. Un interesse, voglio sottolinearlo, diffuso e
distribuito a tutti i livelli della società con diverse (e sovente del
tutto inadeguate e provvisorie) compensazioni. In tutto questo, i valori
oggi più perseguiti e incoraggiati hanno le loro responsabilità
negative, enormemente ingrandite dal valore esibitorio assunto dalle
comunicazioni di massa e dalle loro straordinarie possibilità di
articolazioni.
La «sharing economy» è, o meglio dovrebbe essere
quella che, nel suo libro, Rampini definisce economia della
condivisione, come risultato dell’accelerazione robotica come «economia
della condivisione delle briciole» (come scrive Robert Raich). Mentre i
veri profitti vanno ai padroni dei software . O a chi con esse lavora
con i suoi strumenti come contenuti di un unico futuro.
Ma ciò che
conta per l’architettura è oggi solo la sua trasformazione in immagini
extra-ordinarie ed indipendenti da ogni sua organicità rispetto al
costruito (e al suo uso) e del tutto separate dalla intenzionalità
propria di ogni pratica artistica. Un nuovo ruolo per l’architetto
divenuto illustratore degli obiettivi temporanei del caos globale.
«Chiunque
creda — scrive Rampini — di appartenere ad una professione protetta è
un presuntuoso, o un illuso», artisti compresi. Ma in particolare questo
vale per l’architettura, che è costruita dai contrasti e dai diversi ma
indispensabili materiali della dialettica tra autonomia del progettista
ed eteronomia dei materiali e delle tecniche con sui essa opera. A meno
di pensare, come oggi molti sembrano credere, ad un compito in cui
l’autonomia sia volta solo all’immagine del progetto: pur con
un’intenzionalità del tutto separata da ciò che attualmente domina di
fatto il costruito.
Tutte contraddizioni che oggi definiscono
l’attività di ogni archistar: in cui contenuto funzionale e forma
cercano di essere (anche fisicamente) separati. Nonché appartenenti a
due linguaggi completamente diversi negli obbiettivi. Anche quando si
tratta di grandi spazi interni i cui elementi abitabili sembrano del
tutto separati da quelli sovrapposti dell’immagine esterna del
manufatto. Nel tentativo di proporre così una grande opera
plastico-visuale indipendente, il cui significato esibisce solo la
constatazione della fine di ogni intenzionalità specifica del fare
architettura.