Repubblica 23.1.16
Discorso sulla laicità ai tempi della collera
Il
nuovo libro di Paolo Flores d’Arcais: il ruolo del pensiero democratico
radicale come unico strumento di integrazione di fronte al fanatismo
di Gustavo Zagrebelsky
Molte
cose è il libro di Paolo Flores d’Arcais “La guerra del Sacro.
Terrorismo, laicità e democrazia radicale” (Raffaello Cortina Editore):
un allarme per il pericolo che l’Islam fondamentalista rappresenta per
gli ideali politici dell’Occidente, una denuncia delle debolezze e delle
ipocrisie dei nostri governi, una teoria delle condizioni
irrinunciabili della democrazia. Il “precipitato” di tutti i discorsi
anzidetti è nella parola laicità, intesa nel senso più rigoroso, senza
gli aggettivi oggi di moda (sana, positiva, vera: aggettivi che non
l’arricchiscono, ma l’avvelenano). Le considerazioni che seguono non
sono, propriamente, una recensione. Sono piuttosto un tentativo
d’inquadrare i problemi e di sollecitare riflessioni su questioni
cruciali per il nostro avvenire.
La laicità è il presupposto della
democrazia, in quanto s’intenda la religione come eteronomia, cioè
soggezione alla trascendenza. La democrazia, al contrario, è autonomia,
cioè libertà nell’immanenza. Si potrebbe dire così: chi si appella alla
religione ritiene che le cose terrene siano subordinate a un ordine
sacro oggettivo necessario che a noi spetta rispettare e, eventualmente,
restaurare se è stato violato; chi si appella alla democrazia ritiene,
invece, che la casa terrena non abbia un ordine, ma siamo noi a
doverglielo dare, attraverso discussioni, controversie, voti ed
elezioni. Chi vuole risolvere i problemi della convivenza in base a
premesse sacrali apre le porte a quella maledizione dell’umanità che
sono le guerre di religione. Ora, se guardiamo alla storia, dobbiamo
riconoscere che è nello Stato nazionale che la democrazia ha trovato
l’humus necessario. Questo è un punto importante per comprendere le
difficoltà odierne della democrazia. Lo Stato nazionale ha generato
mostri totalitari, quando è degenerato in nazionalismo. Ma la nazione ha
realizzato la “sfera pubblica” comune, nella quale i cittadini possano
confrontarsi dialogicamente, e “discorsivamente” partecipare alla
creazione d’una volontà comune su temi di rilevanza generale. La
democrazia non è incompatibile con il pluralismo delle opinioni, ma il
“multiculturalismo” è altra cosa, è rottura dell’unità del quadro entro
il quale si deve svolgere la vita comune.
Il libro di Flores è una
scossa necessaria e salubre contro la cecità, la viltà e l’inanità di
fronte ai pericoli del fanatismo religioso usato come sostanza
incendiaria, versata sulle controversie economiche e politiche che
dividono il mondo e le società e le trasformano in crociate. Un breve
excursus storico. La Francia del Cinque-Seicento fu il terreno d’una
orribile guerra civile in cui ragioni politiche si mescolavano col
fanatismo religioso: l’obbedienza cattolica contro la riforma
protestante. La “notte di San Bartolomeo” (23-24 agosto 1572) in cui
migliaia di Ugonotti furono trucidati dal partito cattolico sotto
l’egida di Caterina de’ Medici è un esempio di come si possono regolare i
conti tra fedeli di religione diversa e azzerare le diversità imponendo
una sola legittimità. Contro tanta barbarie, si fece strada un diverso
modo di pensare che potrebbe essere sintetizzato in un detto del
Cancelliere di Francia Michel de L’Hospital: «Non importa quale sia la
vera religione, ma come si possa vivere insieme », ciascuno con la sua
fede. Quella massima trovò attuazione con l’editto di Nantes di Enrico
IV (1598) che, sia pure provvisoriamente e con molte limitazioni,
riconobbe la libertà di coscienza e di culto: tolleranza a condizione
che cattolici e protestanti stessero ciascuno al proprio posto e il
potere assoluto del Re non fosse messo in discussione.
Questa
forma di coesistenza per parti separate poteva valere in quel tempo,
quando di democrazia non si parlava. In democrazia, deve esistere un
unico foro politico generale dove tutti sono chiamati a partecipare. Non
basta che ci sia un potere che garantisca la non aggressione. Occorre
che i “fedeli” delle diverse chiese si rispettino e si riconoscano
reciprocamente come portatori di buone ragioni valide in generale. La
legittimità democratica nasce da lì, dal riconoscimento d’essere parti
d’un foro comune. Il foro comune si chiama “nazione”.
La nazione è
stata celebrata come la casa accogliente, protettiva, il luogo del
cuore, la Heimat del romanticismo tedesco. La storia delle Nazioni e
della “nazionalizzazione delle masse” (titolo d’un celebre libro di
George Mosse del 1974) è stata però lunga e tortuosa e, soprattutto,
fatta di cose molto diverse: movimenti di emancipazione da servaggi e
discriminazioni e conquista di diritti (per esempio, il voto e la
protezione sociale per la classe lavoratrice, in origine esclusa dalla
nazione, secondo la concezione borghese) o, al contrario, di
discriminazione e persecuzione. L’unità è una bella cosa se è il
prodotto dell’azione che mira a distruggere barriere e a creare
fratellanza. Ma può essere — ed è stata — cosa violenta, se è imposta
con obblighi e divieti (come l’uniformità di lingua, di religione e di
insegnamento). Può essere terribile, se viene brandita come arma contro
coloro che i governi dichiarano “non integrabili”, i diversi per natura:
gli stranieri, i senza cittadinanza, i nemici della Patria, i
potenziali traditori (gli ebrei, i rom e sinti, gli omosessuali, gli
slavi, i latini, secondo il concetto nazionale razzista del nazismo).
Raccogliamo
questi spunti di riflessione e facciamoli reagire con i problemi del
multiculturalismo. Il “modello San Bartolomeo”, cioè la violenza e i
pogrom usati per sbarazzarsi dei migranti è proponibile solo per gli
xenofobi razzisti di casa nostra. Tuttavia, neppure la separazione
“modello Nantes” è accettabile: i muri, le enclave e i quartieri
monoetnici, le classi scolastiche separate o le scuole coraniche
sostitutive di quelle pubbliche. Sono cose che hanno il nome apartheid e
sono inconcepibili in democrazia.
La parola-chiave dei nostri
giorni è integrazione e, nel libro di Flores, l’integrazione implica la
laicità nella sua accezione più rigorosa. Si prenda la questione dei
simboli: come dovrebbe essere vietata l’esibizione di quelli islamici
(il velo delle donne), così dovrebbe essere per quelli cristiani (il
crocifisso nei luoghi pubblici). Ma, qui c’è il rischio d’una aporia,
un’aperta contraddizione. La laicità è funzionale all’autonomia, ma la
si può imporre in regime di eteronomia. Si può essere laici perché
qualcuno ce lo comanda? La contraddizione non è da poco. La laicità
imposta significa soffocare i propri tratti identitari e, da questo
soffocamento, si possono sprigionare reazioni di rigetto. L’esperienza
insegna: invece di promuovere convivenza, si rischia di alimentare i
conflitti.
L’integrazione è l’obbiettivo, ma l’obbiettivo si può
perseguire in autonomia solo con l’interazione. Prima o poi, non saremo
più gli stessi. Di questo possiamo essere certi. Si tratta di sapere se
ci si arriveremo in mezzo a conflitti o, invece, con la disponibilità
delle culture a entrare in rapporto. Ferma restando l’intransigenza
verso ogni forma di violenza tra e nei gruppi sociali, e fermo l’aiuto
che deve essere dato a coloro che liberamente desiderano sottrarsi alle
imposizioni delle loro comunità, si tratta di promuovere l’interazione,
nella convinzione ch’essa aiuti la conoscenza reciproca e la convivenza
pacifica. Convinzione o illusione? Non lo sappiamo, ma sappiamo che
questa è l’unica via conforme alle nostre convinzioni democratiche.
IL SAGGIO La guerra del Sacro di Paolo Flores d’Arcais ( Raffaello Cortina pagg. 246 euro 15)