Corriere 23.1.16
Una legge che riconosca i diritti della persona
di Luigi Manconi
Caro
direttore, nel suo editoriale del 15 gennaio lei scriveva che,
nell’ordinamento italiano, la possibilità di adottare il figlio
biologico del partner esiste già per le coppie eterosessuali: dunque
«sarebbe molto complicato negarlo alle altre coppie». Tanto più «se al
centro si mettono i bambini, i loro legami, i loro affetti e il loro
benessere». Mi sembra, questo, un buon punto di partenza per arrivare
all’approvazione di una legge che sia ispirata, allo stesso tempo, da
criteri di razionalità e di sensibilità. Emerge da subito, così, che
quando si parla di unioni civili, ci si deve riferire al riconoscimento
di un essenziale diritto della persona. Ovvero, in primo luogo,
all’imperativo costituzionale di rimuovere gli ostacoli che
compromettono la pienezza della parità di condizione tra i cittadini a
prescindere dai loro orientamenti sessuali. Lo ha ben chiarito la Corte
europea dei diritti dell’uomo che, nel luglio scorso, ha condannato
l’Italia per la mancata garanzia del diritto alla vita familiare delle
unioni non matrimoniali, alle quali va riconosciuto uno statuto
giuridico non discriminatorio rispetto a quello delle coppie coniugate.
In altre parole, la legge deve assicurare il superamento della
condizione di disparità a svantaggio dei minori che crescono nell’ambito
di famiglie fondate sulla convivenza di persone dello stesso sesso.
Ovviamente nessun automatismo nell’adozione: vale la disciplina
generale. Sarà sempre un giudice, cioè, a decidere caso per caso della
idoneità del richiedente a diventare genitore adottivo, e sempre e
comunque nella prospettiva del superiore interesse del minore su cui si
basa l’intera normativa sulle adozioni. In proposito, oggi possiamo
disporre di una sentenza illuminante, che dà risposte quanto mai
persuasive a dubbi e a perplessità. La Corte di appello di Roma ha
confermato recentemente la sentenza emessa dal Tribunale per i minorenni
che aveva disposto l’adozione, da parte di una donna, della figlia
naturale della sua convivente. La sentenza ha inteso, con ciò,
valorizzare, ai fini della continuità affettiva, il rapporto instaurato
tra la minore e la partner della madre, senza alcuna intenzione di
«rispondere, in forza del legame di coppia sussistente, all’esigenza di
riconoscimento di una bigenitorialità non ancora consentita dalla
legge». Competenza, quest’ultima, che, correttamente viene rimandata al
legislatore. Infine, la Corte ha ribadito che «rivestire di contenuto
giuridico il rapporto di fatto esistente tra la bambina e l’adottante
realizza il preminente interesse della minore». Le motivazioni addotte
dal Tribunale e dalla Corte d’appello appaiono davvero esemplari di una
elaborazione giuridica che tiene ben fermi alcuni punti cruciali. In
primo luogo, la tutela del soggetto più vulnerabile (il minore, appunto)
e, poi, l’indicazione degli strumenti necessari a superare uno stato di
sperequazione. Questo restituisce all’intera materia la sua sostanza
più autentica. Come detto, stiamo parlando di diritti civili e di
diritti sociali, della parità tra i cittadini e delle condizioni di
legge che rendono effettiva quella parità. Classificare ciò come
«questione eticamente sensibile» finisce col produrre confusione di
parole e di idee. È ovvio che una simile materia chiami in causa visioni
del mondo, morali private ed etiche pubbliche. E, dunque, interpelli la
coscienza di ognuno. Resta il fatto che le politiche in questo campo,
qualunque sia l’ispirazione che le nutra, devono tener conto del fatto
che sono in gioco la vita concreta delle persone: là dove sentimenti e
diritti devono incontrarsi e integrarsi.