Repubblica 22.1.16
Unioni civili, il ritardo della politica
di Nadia Urbinati
LA
PROPOSTA di legge (testo Cirinnà) che dovrebbe regolare lo stato civile
delle coppie omosessuali e che comincerà il suo iter parlamentare in
Senato il 28 gennaio (quasi in contemporanea con il Family day), mette a
nudo la natura bipolare del Partito democratico, sintesi visiva della
tensione che divide il Paese tra una cultura liberale e una cultura
liberale ma nella misura in cui i diritti individuali non contrastino
con i valori cattolici. Il Pd porta nei suoi geni il seme della
discordia che divide demo-cattolici e demo-liberali sui temi legati alla
procreazione e alla sessualità. Il teso scambio tra Michela Marzano e
Emma Fattorini, lunedì scorso su Repubblica Tv, non sembrava una
discussione fra esponenti dello stesso partito.
L’Italia è, tra i
Paesi europei, quello meno disposto a riconoscere al matrimonio civile
un’identità autonoma rispetto al matrimonio religioso, che per i
cattolici è un sacramento che fonda e sotiene la famiglia. La questione
che divide è lo statuto delle unioni omosessuali, ovvero la disciplina
del matrimonio, la sua indiscussa identità eterosessuale.
All’interno
di questo contenzioso si colloca la discussione sulle adozioni con una
pesante distinzione tra “figli” e “figliastri” in relazione ai tipi di
genitori. La visione diffusa è che i costituenti per primi avessero in
mente una nozione di matrimonio che prevedeva che i coniugi dovessero
essere persone di sesso diverso. Il contesto storico del Paese e la
matrice etico- religiosa di molti dei costituenti che contribuirono alla
scrittura degli articoli 29, 30 e 31 sembrerebbero confermare questa
visione (anche se in nessuno di quegli articoli si menzionano i sessi
diversi). È legittimo chiedersi se la Costituzione vada interpretata
cercando di entrare nella testa dei costituenti e restando ancorati al
loro contesto culturale o se non ci si debba affidare ai criteri di
coerenza interna al testo e di attenzione al nostro contesto, alla vita
nostra qui e ora.
Si potrebbe sostenere che ora come allora
l’Italia è un Paese cattolico e, in questo senso, l’intenzione dei
costituenti è facilmente comprensibile anche da noi. È poi vero che in
un Paese monoreligioso, e con debole pluralismo confessionale,
l’interpretazione del diritto si tinge fatalmente della sensibilità
della cultura della maggioranza (come avvenne nel caso del crocefisso
nelle scuole pubbliche).
Tuttavia, si puó essere cattolici in modi
diversi. La lettura della libertà individuale non è omogenea nemmeno
tra i cattolici. Il movimento cattolico ha infatti conosciuto importanti
stagioni liberali e di dissenso, per esempio nel corso di battaglie per
altri diritti civili come il divorzio e l’interruzione di gravidanza.
I
diritti sono scudi protettivi per chi si trova in minoranza (in questo
caso, chi non è eterosessuale) mettendo in conto che ciascuno di noi —
anche chi condivide la cultura etica della maggioranza cattolica —
potrebbe trovarsi nella condizione di doversi appellare ad essi. I
diritti ci garantiscono nelle nostre future scelte, qualora esse si
scontrino con quelle che la maggioranza giudica buone. Perché lasciare
la definizione di che cosa sia il matrimonio alla parte più numerosa e
soprattutto a quella parte di essa che pensa che il futuro replicherà
sempre e per tutti il passato?
La divisione interna al Pd mostra
un’ulteriore discrepanza. Mostra come la società e la giurisprudenza
camminino a una velocità doppia rispetto alla politica: le persone fanno
scelte di vita secondo la loro personale saggezza, il loro desiderio, i
loro sentimenti, se necessario andando a celebrare un matrimonio gay
all’estero; i giudici, interpellati da coloro che subiscono
discriminazione perché omosessuali, devono seguire il dettato della
Carta.
La vita e il diritto si sostengono a vicenda e tendono a
procedere quasi alla stessa andatura. La politica, invece, resta
indietro, litigiosa e incapace di rappresentare la società e di
ascoltare la voce dei diritti. E resterebbe ancora latitante se la Corte
di Strasburgo, nel luglio scorso, non avesse condanno l’Italia per
violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo sulla tutela della vita familiare, anche omosessuale.
Il
testo Cirinnà non è radicale e segue il tracciato indicato dalla
sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 che sgancia la
questione sulla legittimità costituzionale del matrimonio tra persone
dello stesso sesso dall’articolo 29 per riferirlo all’articolo 2: una
linea di condotta ad un tempo moderata (prospettando unioni civili non
matrimonio) e rispettosa dell’eguaglianza. L’articolo 2 recita: “La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia
come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità”. Cioè anche in unioni omosessuali.