venerdì 22 gennaio 2016

Repubblica 22.1.16
Tunisia
Tra i giovani di Kasserine “Tradite le promesse ora un’altra Primavera”
Cinque anni dopo la caduta di Ben Ali, la morte di Ridha ha provocato nuove tensioni nella città culla della rivolta. Il sogno è un lavoro dignitoso. Il governo ha garantito nuovi impieghi, ma nessuno ci crede: “Perché dovremmo dire no all’Is?”
di Giampaolo Cadalanu


KASSERINE (TUNISIA). Quando il ragazzo con il giubbotto blu sale sulla balaustra del primo piano, la folla al governatorato di Kasserine grida di orrore. Il giovane ha in mano una bottiglia di alcol, fa in tempo a rovesciarsene metà sul cappelletto lavorato a maglia e sulle spalle, poi una mano gliela spinge via, un’altra gli strappa l’accendino, braccia disperate gli impediscono di buttarsi. «Non cambia nulla, sono già morto», grida il ragazzo, avvinghiato a una colonna. Poi gli amici riescono a tirarlo giù, lo portano via.
Nel cortile, in mezzo alla gente attonita, c’è anche il padre di Ridha Yahyaoui, il ventiseienne fulminato dall’alta tensione la settimana scorsa mentre minacciava di buttarsi assieme ad altri disoccupati. L’uomo stringe sotto braccio il ritratto del figlio, quasi nascosto perché, dice, non vuole causare ancora disordini. Ma la rabbia di Kasserine non ha bisogno di nuovi stimoli. Altri disoccupati tentano di darsi alle fiamme davanti agli uffici delle autorità locali, la sera si replica il copione degli scontri: sassate e lacrimogeni nel cortile del governatorato, copertoni incendiati nel crocicchio della piazza centrale. E il fuoco della contestazione si propaga a Jendouba, a Beja, a Skhira, a Sidi Bouzid, lambendo persino il centro della capitale. I feriti sono decine, un poliziotto resta ucciso.
Nell’angolo più sfortunato della Tunisia il tempo sembra tornato a prima del 2011. Sono passati cinque anni dalla fuga di Ben Ali e la prima rivolta della Primavera araba, l’unica scampata al fondamentalismo, rischia di tornare al punto di partenza. Il tema delle rivendicazioni è sempre il sogno di un lavoro dignitoso. La disoccupazione è sopra il 15 per cento, in provincia supera il 30. Così anche il luogo del malcontento è lo stesso, il centro sottosviluppato del paese. Ieri era la Sidi Bouzid che ha visto il sacrificio di Mohamed Bouazizi, oggi la Kasserine del martire Rizha.
Qui gli ulivi lasciano il posto a fichi d’India e agavi, quasi a togliere ogni illusione sulla generosità della terra. Le rovine romane di Sbeïtla parlano di grandiosità, ma suggeriscono solo rimpianti. Sui muri di periferia, la scritta in inglese “We are the revolution”, la rivoluzione siamo noi, sbiadisce. E dopo la speranza, la delusione è più amara. Munir scoppia in singhiozzi mostrando i curricula dei cinque figli: «Ho cucinato il pane per trent’anni, per farli studiare. E devo continuare, perché sono l’unica a guadagnare». A due passi dal blindato con i soldati che controllano l’accesso, sul cancello c’è una scritta che recita: «Kasserine — Un potenziale enorme e multiple opportunità di investimento». Pochi ci credono, fra i 5mila arrivati dalle sette del mattino al governatorato, con certificati, fotocopie e illusioni. E la richiesta diventa protesta, con gli slogan di cinque anni fa: «Dégage!», vattene! O: «Il popolo vuole un’altra rivoluzione, un’altra primavera».
Il governatore si è asserragliato nel suo ufficio, militari in mimetica e giubbotto antiproiettile controllano i dimostranti. Lo ha ribadito il presidente Beji Caïd Essebsi: il diritto a manifestare è sacro e va tutelato. Ma ci vuole pazienza. Dopo la morte del giovane Yahyaoui, il governo ha promesso cinquemila impieghi pubblici per la gente di qui. Fra i senza lavoro nessuno ci crede: molti sarebbero “regolarizzazioni” di persone già impiegate, o lavori con un salario mensile da fame: 150 dinari, meno di 75 euro. Per ora l’impegno è poco specifico, ma si parla di aiuti a nuovi progetti economici. Sarebbe perfetto per Moncef, cinquantenne piccolo editore, che ha chiuso per mancanza di credito. Lui non si illude: «Non so più che fare. Sono pronto a rinunciare alla cittadinanza tunisina». Si contano gli anni di disoccupazione, per lo più in doppia cifra. Una madre si lamenta: se le cose stanno così, perché i ragazzi dovrebbero dire di no al terrorismo? Stando ai media tunisini, l’appello dell’integralismo funziona: sarebbero sette i giovani arrestati mentre salivano sul monte Chaambi, roccaforte jihadista, pronti ad “arruolarsi”.