Repubblica 21.1.16
L’onda rossa che parte da Pechino
Cina, petrolio e debiti ecco le tre condizioni della tempesta perfetta. E i rimedi tardano
Ieri
il prezzo del greggio è sceso per la prima volta dal 2003 sotto quota
27 dollari al barile In Germania la spesa pubblica cresce: solo un addio
all’austerity può rilanciare l’Europa
Dalle incognite del nuovo
modello di sviluppo di Pechino al controshock energetico: così arriva il
peggior inizio dell’anno sui mercati. Le mosse della Fed
di Federico Rampini
NEW
YORK. Cina, petrolio, debiti: tre motori della crisi si stanno
avvitando a vicenda. Le condizioni di una “tempesta perfetta” si
addensano sull’economia globale. È il peggiore inizio d’anno in
assoluto, da quando si misurano i valori di Borsa. L’indice mondiale Dow
Jones — che le riassume tutte — ha perso il 20% dai massimi ed è quindi
tecnicamente un periodo dell’Orso. La turbolenza non riguarda solo chi
ha investito in azioni: petrolio e valute ci stanno indicando problemi
in arrivo anche per l’economia reale. La paura spinge all’accaparramento
di titoli sicuri, i buoni del Tesoro Usa decennali vanno a ruba, il
loro rendimento di conseguenza scende sotto il 2%. La Federal Reserve
americana fu prematuramente ottimista quando a dicembre iniziò ad alzare
i tassi decretando la fine dell’emergenza? In realtà la crescita
americana è l’unica certezza. Ma è già “matura”, le statistiche indicano
che dopo sette anni di ripresa una recessione sarebbe normale.
Cosa
sta succedendo esattamente, e perché proprio ora? In realtà le
avvisaglie si susseguono da due anni (petrolio e rallentamento cinese),
nel luglio 2015 già ci fu un panico delle Borse. Si acutizza una crisi
che ha cause profonde, antiche, strutturali. Al primo posto c’è la
transizione della Cina verso un nuovo modello di sviluppo, con tutte le
incognite che presenta, ivi compresi gli interrogativi sulla capacità
dell’attuale leadership cinese di governare questo processo delicato che
investe un colosso da 1,3 miliardi di persone. Al secondo posto c’è il
contro-shock petrolifero che dura da quando ci furono il rallentamento
cinese e la rivoluzione energetica americana; ma di recente con la
guerra geo-economica tra Iran e Arabia Saudita ha assunto le
caratteristiche di una rotta disordinata. Solo dall’inizio dell’anno il
petrolio ha perso quasi un altro 30% di valore, scendendo ieri, per la
prima volta dal 2003, sotto i 27 dollari al barile: siamo di fronte a un
fenomeno di deflazione di rara violenza. Questo destabilizza non più
solo i petro-Stati ma anche le banche occidentali che hanno prestato al
settore petrolifero. È sintomatico vedere le banche di Wall Street
“stringere la cinghia” all’improvviso, nonostante abbiano chiuso
un’annata di grassi profitti. Terzo fattore: la svolta monetaria
inaugurata dalla Federal Reserve a dicembre ha rafforzato il dollaro
creando problemi a chi in dollari si è indebitato (Stato sovrano o
impresa) in giro per il mondo. Ci sono gli elementi per temere che si
stia aprendo il capitolo numero tre nella storia della Grande
Contrazione, quella iniziata col crac della finanza americana nel 2008
(il secondo capitolo fu il dissesto dell’Eurozona dal 2010 in poi). La
Borsa di Milano ha qualche aggravante specifica — Monte dei Paschi — ma
la sua caduta è parte di un fenomeno molto più grande che si allarga da
Shanghai a New York passando per Riad e prolungandosi fino a San Paolo
del Brasile.
A conferma che siamo forse al capitolo terzo di una
crisi mai veramente conclusa, arriva un dato sulle fughe di capitali
dalle nazioni emergenti. Lo fornisce l’Institute of international
finance, con sede a Washington. Nel corso del 2015 ben 735 miliardi di
dollari hanno abbandonato i Paesi emergenti, di cui almeno 60 miliardi
sono usciti dalla Cina. Si volta pagina rispetto a un’epoca segnata dai
Brics come locomotive globali, mercati trainanti, calamite degli
investimenti. L’acronimo Bric designa Brasile Russia India e Cina, cui
fu aggiunto successivamente il Sudafrica. Venne coniato dal capo
economista di Goldman Sachs nel 2001. Da allora la parabola dei Brics
sembrava unidirezionale: sempre più su. Ma dietro i boom plurimi si
nascondevano enormi differenze e qualche fragilità comune. La vera forza
propulsiva era la Cina. E neanche lei poteva sfidare all’infinito le
leggi della gravità. O quelle dell’invecchiamento che colpisce ogni
“miracolo” economico.
Ci sono rimedi all’orizzonte? Questa è la
domanda che conta di più. Le risposte non sono rassicuranti. L’America è
in campagna elettorale, le sue politiche economiche sono affidate
soprattutto alla Federal Reserve. Che ha fatto meraviglie in passato,
tuttavia ha seminato anche una concausa della crisi attuale: l’eccesso
di liquidità andato ad alimentare bolle speculative nei Brics. In Europa
dietro i fremiti di ripresa c’è un “piccolo, sporco segreto”: la
crescita tedesca è ripartita (moderatamente) grazie alla spesa pubblica.
Cioè quella ricetta che dal 2009 Barack Obama ha tentato di consigliare
ad Angela Merkel. Ci sono voluti cinque anni perché la Bce riuscisse ad
emulare la Fed nella svalutazione competitiva; ben sette anni perché la
Germania annacqui a casa sua la rigidità dell’austerity? Purché non sia
troppo tardi.