Corriere 21.1.16
Germinal, l’opera nera. E no
di Pietro Citati
Émile
Zola è lo scrittore più popolare della Francia: alla fine del Ventesimo
secolo, le collezioni di tascabili hanno venduto venticinque milioni di
copie dei suoi romanzi. Nel nostro Paese, invece, Zola è poco letto e
poco amato; ed è dunque molto proficua la recente edizione dei
Meridiani, che pubblica nove romanzi in tre volumi. Da poco sono usciti
Germinal , La terra , La bestia umana , curati in modo eccellente da
Pierluigi Pellini e tradotti da Giovanni Bogliolo, Donata Feroldi e
Dario Gibelli. Zola cominciò a scrivere Germinal , il più famoso e forse
il più bello dei suoi romanzi, nell’aprile 1884, dopo aver studiato la
questione mineraria, e dopo un viaggio a Valenciennes, il principale
modello di Montsou, dove si concentrano le vicende del libro. Un anno
più tardi lo pubblicò in quarantamila esemplari: una tiratura alta anche
oggi.
In primo luogo, Germinal è un libro nero. La pianura nuda è
dominata da una notte senza stelle, illuminata dai rari fuochi azzurri
degli altiforni e da quelli rossi dei forni a coke: essa è spazzata da
una tramontana gelida con grandi soffi che si succedono regolari come
colpi di falce; oppure bagnata dalla pioggia che scende lenta,
cancellando ogni cosa in fondo al suo monotono picchiettio. La notte
seppellisce la terra come un sudario. Si moltiplica nel cuore della
miniera, ispessita dalla polvere di carbone sospesa nell’aria, e
appesantita dai gas che gravano sugli occhi dei minatori. Sentiamo un
rumore sordo, che sembra provenire dalle viscere della terra, e che
nasce dallo sfiatatoio della grande pompa: un respiro lungo, greve,
incessante, simile all’ansimare strozzato del mondo. Tutto, la notte, la
miniera, il respiro dello sfiatatoio, è tenebra; e questa tenebra non è
un’assenza di colore, ma, come diceva Huysmans, il colore supremo, la
molteplicità di tutti i colori, che occupa in modo stabile la mente di
Zola.
La miniera è accucciata in fondo a un avvallamento: con
edifici tozzi di mattoni e una ciminiera alta trenta metri, ritta come
un cono minaccioso. Il suo aspetto è malvagio: sembra una bestia
ingorda, un mostro accoccolato per divorare la gente. Zola si sforza di
descriverla: insiste, ripete, insiste ancora, fallisce; finché, secondo
la profonda inclinazione della sua natura, parla, con una specie di
religioso tremore, di un «tabernacolo», in cui si nasconde, accucciato e
satollo, il dio al quale tutti i minatori e tutti gli uomini offrono la
propria carne.
Questo dio è inanimato: è una cosa nella sua
essenza profonda: ma subito diventa animalesco; il pozzo inghiotte gli
uomini a bocconi di venti o trenta per volta, e li manda giù per la
gola, come se non li sentisse nemmeno passare. Ciò che è animalesco
diventa umano: i cavalli, che stanno chiusi in fondo alla miniera e non
risalgono mai alla luce, rivedono con la mente il mulino dove sono nati,
continuamente battuto dal vento, e fanno inutili sforzi per ricordare
l’infanzia. Intanto la pompa della miniera continua a soffiare con lo
stesso respiro lungo e greve: il respiro di un orco umano che nulla può
saziare.
Passando dal simbolo alla realtà, Zola descrive gli
uomini che affollano la pianura di Montsou. Essi non sono, in realtà,
uomini, ma insetti o spettri. In fondo alla miniera, si agitano forme
fantomatiche, lasciando intravedere un’anca, un braccio nodoso, una
faccia rabbiosa, imbrattata di polvere di carbone come per commettere
meglio un delitto. Essi sudano: ansimano: le giunture dei corpi
scricchiolano, ma senza un lamento, con l’indifferenza dell’abitudine,
come se vivere così piegati fosse il destino comune di tutti gli uomini.
Si spogliano: scavano la roccia: si intridono di fanghiglia nera fino
al capo; come talpe in fondo a una tana, sotto il peso della terra,
senza più fiato nei corpi arroventati.
Quando la Compagnia
mineraria aggrava le loro condizioni di vita, i minatori entrano in
sciopero. I borghesi trovano divertente lo sciopero: ma, in fondo alla
loro allegria forzata, c’è una sorda paura, tradita da occhiate
involontarie. Sul piazzale della miniera grava un pesante silenzio:
quella di Montsou è una fabbrica morta: i grandi cantieri sono vuoti;
nel cielo di dicembre, tre o quattro vagoni abbandonati hanno la muta
tristezza delle cose dimenticate. In questo momento, alla tradizionale
disciplina dei minatori si aggiunge un orgoglio da soldati: gente fiera
del proprio mestiere, che dalla lotta quotidiana contro la morte ha
appreso l’esaltazione del sacrificio.
Tra i minatori di Montsou,
giungono estranei. Étienne Lantier, che viene dalla città, appare in
altri volumi dei Rougon-Macquart , il grande ciclo di Zola. Egli non
tollera i doni della Compagnia: detesta i borghesi: non vuole farsi
ridurre come una bestia accecata e schiacciata; ma immagina una
rigenerazione universale di popoli senza una goccia di sangue. Suvarin è
un anarchico, che viene da Pietroburgo. «Piantatela — grida — con la
vostra evoluzione! Appiccate il fuoco ai quattro angoli della terra,
sterminate i popoli, radete al suolo tutto quanto. Quando non resterà
più niente di questo mondo, allora forse ne nascerà uno migliore. Lo
volete capire? Bisogna distruggere tutto. Sì, l’anarchia. Più niente. La
terra lavata dal sangue, purificata dall’incendio...!».
Lo
sciopero si estende e diventa violento. Quando i minatori arrivano al
pozzo di Gaston-Marie, duemilacinquecento forsennati spaccano e spazzano
via tutto, con la forza impetuosa di un torrente in piena. Ribaltano i
fornelli, svuotano le caldaie, devastano gli edifici. Si gettano sopra
la pompa, come se fosse una persona a cui vogliono togliere la vita: la
massacrano a colpi di mattoni e sbarre di ferro. Allora l’acqua comincia
a sgorgare. Quando esce completamente, un ultimo gorgoglio sembra il
singulto di un agonizzante. Lo sciopero dura due mesi. La rabbia, la
fame, le scorribande trasformano i placidi volti dei minatori di Montsou
in fauci di bestie feroci. I raggi del sole al tramonto insanguinano la
pianura. Il nero del libro diventa rosso, scarlatto, accrescendo la
propria violenza tenebrosa. I minatori si chiudono in casa, in preda
alla fame e alla ostinazione passiva. La loro forza cieca divora sé
stessa.
Intanto Suvarin è sempre più assorbito in un’idea fissa,
che sembra brillare come un chiodo d’acciaio in fondo ai suoi occhi
chiari. Egli sabota la miniera. Poi si allontana senza guardarsi alle
spalle nella notte tenebrosa: con la sua aria tranquilla, va verso lo
sterminio, dovunque ci sia dinamite per far saltare uomini e città.
Sottoterra,
scorre il Torrente, un mare inesplicato, con le sue tempeste e i suoi
naufragi, che agita i propri flutti neri a trecento metri dalla luce del
sole. La miniera si riempie d’acqua. La grande pompa ansimante non
riesce a smaltirla. Il rivestimento del pozzo si stacca. In alto si
sente una serie di sorde detonazioni: tavole di legno si fendono e si
schiantano in mezzo al continuo e crescente frastuono del diluvio. Si
sentono bruschi rimbombi: rumori irregolari di cadute profonde, seguiti
da lunghi silenzi. La ferita della miniera si allarga: la frana,
cominciata in basso, si avvicina alla superficie. Una prima scossa fa
tremare il terreno, seguita da una seconda. Da quel momento il suolo non
smette di tremare: un susseguirsi di scosse, cedimenti sotterranei,
boati di vulcani, e infine un’ultima convulsione. L’alta ciminiera
crolla in blocco, bevuta dalla terra come un cero colossale. Tutta la
miniera sprofonda in un lago d’acqua melmosa: mentre i cavalli, chiusi
nelle stalle sotterranee, impazziscono con nitriti furibondi.
Nel
pozzo rimane Étienne, insieme a una ragazza, Catherine Maheu, che egli
ama di un amore contrastato. La lampada si spezza. Sopra di loro, scende
la notte assoluta. Entrambi accusano ronzii alle orecchie: sentono i
rintocchi furiosi di una campana a martello, il galoppo interminabile di
una mandria sotto un rovescio di grandine. Étienne avvinghia Catherine e
la possiede: «Quella fu finalmente la loro notte di nozze, in fondo a
quella tomba, su quel letto di melma, per l’ostinato bisogno di vivere
un’ultima volta». Catherine muore. Étienne viene salvato e portato in
alto, alla luce del sole. Come i grandi romanzi romantici, Germinal
conosce il proprio senso ultimo nella fusione di Eros e Thanatos, amore e
morte.
Il titolo del bellissimo libro indica il settimo mese,
Germinal, nel calendario della rivoluzione francese: dal marzo
all’aprile. Al tempo stesso, annuncia il ritorno e la vittoria della
primavera: la nascita, la vita, la germinazione. Tutte le cose
germinano: anche ciò che è morto, o non è mai esistito: persino
Catherine annegata in fondo al pozzo; eppure esse sono nere, come
l’eterna notte senza stelle che apre il romanzo. I libri di Zola sono
sempre così: realistici e onirici, razionali e mistici, riuniscono
disperatamente e trionfalmente gli estremi dell’universo.