Repubblica 21.1.16
Il mandato di Francesco
di Alberto Melloni
LE
decisioni che il Parlamento si appresta a prendere in materia di unioni
civili coinvolgono per ragioni storiche la chiesa italiana, la Santa
Sede e in un certo senso perfino il Papa. Non che il Papa debba decidere
se “appoggiare” qualcosa o qualcuno.
COME tutti vedono quando
Francesco vuol fare una cosa la fa e quando vuol dire una cosa la dice. E
tutti sanno che di solito in Italia chi chiede o vanta o invoca
l’appoggio del Papa rivela una strumentalità che non ha mai portato
fortuna e che in questo periodo espone il malcapitato al rischio di
sentirsi classificare gelidamente — come ben sa Ignazio Marino — uno
“che si professa cattolico”.
Francesco però conosce la Chiesa di
cui è primate e ne vede la fragilità. Al convegno di Firenze, a
novembre, ha detto ai cattolici italiani frasi di fuoco: «Non dobbiamo
essere ossessionati dal potere, anche quando questo prende il volto di
un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa». E, non
potendo aspettarsi molto dai suoi figli e fratelli, ha chiesto a Dio che
«protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine,
di denaro». Ossessioni e surrogati non sono mancati nella storia della
questione, oggetto di discussioni e manifestazioni in cui non
guasterebbero la limpidezza e il rispetto giustamente invocati ieri da
Stefano Rodotà su Repubblica.
La Chiesa italiana, alla fine
dell’età ruiniana, scelse di usare proprio un disegno di legge sui
diritti e doveri delle coppie di fatto per una operazione politica di
vasto respiro. L’obiettivo della chiesa ruiniana non era infatti questo o
quel dettaglio dei “Dico” (che il cardinale, nell’intervista di ieri su
Repubblica, non cita, sapendoli rimpianti da tanti), ma ben altro: cioè
far sentire politicamente alla destra il peso della Chiesa, negare a
una tradizione cattolico-democratica la propria responsabilità nel
compromesso democratico, ed ammutolire i vescovi davanti ad una
complessità politica che solo il cardinale sembrava saper manovrare.
Per
quello scopo si evocarono passi estremi. Si ventilò un vincolo da porre
sui parlamentari (cosa che fece dire a uno storico come Giuseppe
Alberigo, in un appello che incontrò molti consensi, di non riportare
l’orologio della storia ai tempi del non expedit). Né a Benedetto XVI né
alla sua segreteria di Stato sfuggì la pericolosità di quella mossa:
tant’è che di lì a poco finì l’era Ruini e iniziò la presidenza del
cardinale Bagnasco, che fra poco compirà dieci anni di mandato.
In
quel frangente maturarono però convinzioni e posizioni che in questi
nove anni sono rimaste intatte e che si riflettono ancora dentro le
tante facce del poliedro chiesa, con accenti, sfumature, opzioni,
ambiguità, speranze, che non possono essere appiattite.
Dal 2007
in qua qualcuno ha capito che il folgorante apoftegma di un grande
canonista come il cardinale Francesco M. Pompedda («le coppie di fatto
sono un fatto») avrebbe potuto ispirare posizioni meno sterili sul piano
pastorale. Ad altri rimane ancora la nostalgia per quella effimera
stagione di potenza o il rimpianto per l’esibizione muscolare del Family
day, dopo il quale l’Italia non conobbe altro che i mesi drammatici che
precedettero il giuramento del governo Monti.
Dopo l’elezione di
papa Francesco si sono aggiunte due convinzioni sbagliate e
superficiali, ma per tanti seducenti. Chi vedeva in Bergoglio compiersi
la profezia di Lucio Dalla sul giorno in cui «si farà l’amore ognuno
come gli va» ha pensato che qualsiasi soluzione, purché rapidissima,
sarebbe stata indolore. Chi crede che Francesco non sia maestro della
riforma che il Vangelo chiede a tutti e sempre, ma un astuto commesso
che confeziona con carte nuove una dottrina immutata perché immutabile,
avrà pensato che garantendosi l’appoggio di qualche porporato ci si
potrebbe intestare un minaccioso stop al rapidismo renziano. Al tutto si
aggiunga il fatto che voci più ascoltate che autorevoli della curia
romana lasciavano intendere che il punto di resistenza della Santa Sede
romana fosse l’estensione della definizione “matrimonio” alle promesse
incondizionate d’amore fra persone dello stesso sesso. Soluzione un po’
facile che non teneva conto della sostanza che sta sotto termini come
sposalizio, coniugio, nozze, patto o unione.
L’insieme di queste
forze ha contribuito a spingere la discussione in un vicolo cieco. Fare
un “gay marriage” con altro nome è infatti sembrato un modo (il “modello
tedesco” lo chiama anche chi non lo ha mai letto) che evidentemente
qualcuno ha creduto coerente coi desiderata ecclesiastici e insieme
accettabile alle istanze delle persone lesbiche e gay. E così s’è pagato
a un prezzo salato sul nodo della questione: e cioè se e come
configurare un istituto giuridico autonomo e distinto dal matrimonio,
cosa che avrebbe meritato il ricorso a un dibattito e a un voto
orientativo come alla costituente.
S’è così evitata o forse solo
rinviata la via irlandese di una modifica costituzionale per dare a chi
vuole sposare una persona del suo stesso sesso il limpido diritto di
farlo. Ma si è inciampati sul problema della adozione di figli, prenati o
sopravvenienti, e sulla sensazione che lì si aprisse il varco per una
cosa che qualcuno chiamerà maternità surrogata, altri utero in affitto e
altri ancora prostituzione riproduttiva. La discussione su come stare o
uscire da questa aporia è stata resa ancor più complicata dal calcolo
politico, ora ingenuo ora intollerante ora cinico: che divide e dividerà
qualunque via si imbocchi ora. Divide e dividerà i partiti dove
minoranze non altrimenti aggregabili cercano di saldarsi nel dirsi
“cattolici”, eccitando il vecchio clericalismo col richiamo alla piazza e
l’anticlericalismo antico di cui il “mail bombing” invocato dal sito
Gay.it era solo il preconio.
Dividerà e divide anche i vescovi
italiani, alle prese con l’impegnativo messaggio indicato dal Papa a
novembre. La differenza però è che questa riconquista del confronto non è
un male, ma il compito che Francesco ha affidato al segretario
generale, mons. Nunzio Galantino. Egli non è il capo di un partito o di
un governo, e dunque deve far affiorare le differenze, legittimare le
resistenze leali, smascherare le malevolenze, garantire che la bussola
della Chiesa sia il Vangelo, come ha fatto il Papa nel Sinodo sulla
famiglia. E dunque garantire — col suo dire o col suo tacere — che
nessuno possa intestarsi un “mandato” papale e che tutti si misurino con
l’esigenza di testimoniare che la fiducia nel dono incondizionato di
sé, così difficile da accettare per le generazioni scosse dalla
instabilità e dalla frammentarietà dell’esistenza, è un bene ancora a
disposizione di ogni esistenza.