Repubblica 19.1.16
Europa
L’era della protesta
di Thomas L. Friedman
SE
in questi giorni andate sul sito del “Guardian”, trovate una sezione
che si intitola semplicemente Protest. E così, sorseggiando il caffè al
mattino, adesso potrete leggere notizie d’attualità, sportive, sul meteo
e riguardanti le varie proteste. In quella sezione ho trovato articoli
intitolati “Cinque nuove idee per l’agitatore creativo di strada nel
2016”, “Una musulmana cacciata da un comizio di Donald Trump dopo una
protesta silenziosa”, e — come è appropriato che sia — “Viviamo nell’era
della protesta”.
Proprio così. Soltanto la scorsa settimana, la
cancelliera tedesca Angela Merkel ha dovuto far fronte a vaste proteste
quando il suo ministro della Giustizia ha dichiarato che responsabili
delle aggressioni di massa a sfondo sessuale alle donne di Colonia la
notte di Capodanno sono in buona parte immigrati arabi — lasciati
entrare nel Paese grazie alla politica liberal varata per i rifugiati da
Merkel — , che oltretutto hanno utilizzato i social network per
coordinare i loro assalti. Negli Stati Uniti, nel tentativo di far
pervenire tutto il suo sdegno e quello di molte altre persone e trovare
una volta per tutte una soluzione alle dissennate leggi nazionali
sull’uso delle armi, il presidente Barack Obama ha addirittura versato
qualche lacrima — e questa è stata la sua sorprendente forma di
protesta.
Sono del parere che quest’epoca di protesta sia
alimentata, in parte, dal fatto che le tre forze più potenti del pianeta
— globalizzazione, legge di Moore e Madre Natura — sono tutte in
accelerazione, stanno dando vita a un moto vorticoso di sconvolgimento
che sottopone a forti sollecitazioni i paesi forti e la classe media,
mentre spazza via quelli deboli, e in concomitanza conferisce un potere
sproporzionato ai singoli e trasforma la natura stessa di lavoro,
leadership e governo. Tutto allo stesso tempo.
Quando così tanta
agitazione si propaga in un mondo nel quale chiunque abbia uno
smartphone ormai è giornalista, fotografo e documentarista, c’è quasi da
stupirsi se non tutti i giornali hanno una sezione intitolata
“Proteste”.
Ho chiesto che cosa ne pensa di quest’epoca di
protesta a Dov Seidman, autore del libro “How” e Ceo di Lrn, che offre
alle imprese di tutto il mondo consulenze per la leadership e su come
creare una cultura aziendale etica. «In tutto il mondo la gente sembra
quasi moralmente accalorata », ha risposto Seidman. «Il filosofo David
Hume sosteneva che “l’immaginazione morale diminuisce con l’aumentare
della distanza”. Ne dovrebbe conseguire che è vero anche il contrario:
più la distanza diminuisce, più aumenta l’immaginazione morale.
Oggi
che le distanze non esistono — è come se vivessimo tutti nel medesimo
teatro affollato, nel quale ogni cosa diventa personale — proviamo le
aspirazioni, le speranze, le frustrazioni, le afflizioni altrui in modo
diretto e viscerale ».
In effetti, siamo esposti da vicino alle
sequenze filmate della vergognosa aggressività della polizia, delle
vittime del terrorismo che saltano giù dalle finestre di un teatro a
Parigi, delle mail a sfondo sessista o razzista circolate a livello
aziendale e divulgate dagli hacker. Chi non sarebbe accalorato?
Prosegue
Seidman: «Provate a riflettere: un dentista del Minnesota abbatte a
colpi di fucile nello Zimbabwe un leone molto amato di nome Cecil, e
pochi giorni dopo lo sanno tutti, in tutto il mondo, e ciò innesca su
Twitter e Facebook uno tsunami di indignazione morale. Di conseguenza,
una folla di persone cerca di far chiudere il suo studio dentistico, c’è
chi posta recensioni negative su Yelp e imbratta di vernice le pareti
della sua casa delle vacanze in Florida con la scritta “assassino di
leoni”.
E non basta, perché in un solo giorno sono quasi in
400mila a firmare su Change. org una petizione per chiedere alla
compagnia aerea Delta di cambiare la sua politica di trasporto dei
trofei di caccia. Delta Air Lines acconsente e così pure decidono di
fare altre compagnie aeree, ma a qual punto i cacciatori che
contribuiscono a mandare avanti il turismo nello Zimbabwe protestano per
la protesta, e affermano di essere discriminati».
Il fatto di
sentirci sempre più moralmente accalorati «in linea generale è
positivo», sostiene ancora Seidman: il razzismo istituzionalizzato nei
dipartimenti della polizia o nelle confraternite universitarie è reale,
esiste, ed è stato tollerato troppo a lungo. Che ora lo si gridi ai
quattro venti è un segno positivo per la società, che così dimostra di
essere sana e pronta a rinnovare il proprio impegno.
Tuttavia,
quando questo accaloramento morale si manifesta sotto forma di sdegno
morale, ha aggiunto, «può o ispirare o soffocare un serio dibattito e la
verità stessa». Indubbiamente, un collegamento tra l’esplosione del
politically correct nei campus universitari — tra i quali Yale, dove gli
studenti esigono le dimissioni di un amministratore la cui moglie ha
difeso le regole sulla libertà di espressione che potrebbero mettere a
disagio alcuni studenti — e le ovazioni che riceve Donald Trump per le
sue esternazioni politiche furibonde e irrispettose c’è. C’è di sicuro.
«Se
allo sdegno morale, per quanto giustificato possa essere, fa
immediatamente seguito un’istanza di licenziamento o la richiesta di
dimissioni — sostiene Seidman — si può innescare un circolo vizioso di
indignazione morale alla quale si risponde con altrettanta indignazione,
invece di un circolo virtuoso fatto di dialogo e di impegno concreto
miranti a pervenire a una comprensione reale dell’accaduto e ad accordi
duraturi ». Oltre a ciò, «quando lo sdegno morale omette di innescare un
dibattito morale, è assai probabile che si pervenga all’acquiescenza, e
non a soluzioni ispirate», prosegue Seidman. Tutto questo può
alimentare anche l’attuale epidemia di scuse ipocrite, «tenuto conto che
ottenere le scuse esercitando pressioni è un po’ come imporre a un
bambino di scusarsi per liquidare la faccenda senza mai fare ammenda sul
serio».
Con tutto questo accaloramento morale, è come «se
stessimo vivendo in una tempesta interminabile», ha detto. Peccato,
ahimè, che per risolvere le dispute morali «siano assolutamente
indispensabili prospettiva, un quadro della situazione quanto più
completo possibile, e la capacità di effettuare distinzioni
significative».
A sua volta, tutto questo richiede la presenza di
leader che abbiano il coraggio e l’empatia necessari «a ispirare la
gente, a indurla a fermarsi e riflettere così che, invece di reagire
sbraitando in 140 caratteri, essa riesca a incanalare la sua
indignazione morale in un dibattito approfondito e sincero». Seidman ha
poi concluso dicendo che «se riuscissimo a farlo, allora potremmo
davvero tornare a essere grandi, perché riprenderemmo a percorrere la
strada che conduce a un’unione più compiuta». Un “se” non da poco.
( Traduzione di Anna Bissanti) © 2016 New York Times News Service