Repubblica 19.1.16
A lanciare l’allarme è il Parlamento. Un cittadino su sei rinuncia
alle terapie. E tra i poveri va ancora peggio
Colpa dei reparti chiusi, dei medici che mancano. E dei ticket cresciuti del 20 per cento in pochi anni
Costi molto alti gli italiani non si curano più
di Roberto Petrini
GLI
ITALIANI, CHE SECONDO un comune clichè sarebbero ipocondriaci e
ansiosi, stanno cambiando atteggiamento e hanno cominciato a trascurare
la propria salute. Colpa dei costi troppo alti dei ticket,
dell’eccessiva distanza dei presidi sanitari e delle liste d’attesa.
Esasperati dalla crisi e con sempre meno soldi in tasca rinunciano al
dentista. Tra le fasce più povere della popolazione fino al 15 per cento
degli italiani si priva delle cure.
A lanciare l’allarme non è un
semplice centro di studi sociologici e di monitoraggio delle tendenze
degli italiani, ma l’Ufficio parlamentare di bilancio, il ferreo
presidio di ricerca che ha il compito di fare da cane da guardia ai
conti pubblici sulla scorta delle regole europee. I dati riguardano il
2013, prima dell’esecutivo Renzi, e risentono soprattutto delle
politiche di austerità messe in atto da Monti tra il 2011 e il 2012, ma
suonano comunque come un monito rispetto ai potenziali effetti dei tagli
al Fondo sanitario nazionale praticati con la nuova legge di Stabilità
2016.
Dalle statistiche fornite dall’Upb, e firmate Eurostat, si
scopre che il 7,1 per cento degli italiani rinuncia a farsi visitare
perché – queste le motivazioni addotte – il costo della prestazione è
troppo alto, la lista d’attesa è troppo lunga oppure l’ospedale è troppo
distante. Con il diminuire del reddito il disagio cresce: la rinuncia
alla cura sale al 14,6 per cento nel caso in cui gli interpellati
appartengano al 20 per cento più po-vero della popolazione italiana.
Non
è sempre stato così. Prima della Grande crisi del 2007-2009 e della
Grande austerità europea del 2011-2012, gli italiani che facevano a meno
di curarsi erano in numero assai inferiore: nel 2004, ad esempio, solo
il 3,6 per cento rinunciava per eccesso di costi e si arrivava al 5,2
per cento considerando anche gli altri elementi di disagio, come la
distanza o la lista d’attesa. A preoccupare è anche il dato delle cure
dentistiche: il 18,6 per cento, circa un quinto dei più poveri, ha
dovuto scartare l’idea di farsi curare i denti.
Le spiegazioni che
gli italiani danno del proprio comportamento sono realistiche?
Purtroppo sì, e gli economisti dell’Upb confermano la correlazione tra
tagli alla sanità e aumento dei tassi di trascuratezza nei confronti
della salute. Già in termini generali la spesa corrente per la sanità
non è alta come comunemente si crede: siamo a due terzi di quella
tedesca, a tre quarti di quella francese e addirittura il 60 per cento
di quella Usa. Il rigore degli ultimi anni è stato pesante: la spesa
sanitaria corrente, che tra il 2003 e il 2006 cresceva in media del 5,8
per cento, tra il 2007 e il 2010 è salita solo del 2,8 e addirittura nel
periodo 2011-2014 è cresciuta a tasso “zero” (dati della Ragioneria
generale dello Stato).
A fare le spese dei tagli e della caccia
alle risorse ci sono proprio le voci che sembrano stare a monte del
disagio denunciato dai cittadini. Ad esempio il numero dei posti letto
negli ospedali è diminuito dal 4 per mille nel 2005 al 3,4 nel 2012
contro una media europea di 5,3 per mille. La riduzione delle degenze
avrebbe dovuto essere compensata dai day hospital, ma – come segnala il
rapporto Upb – è sempre di più la gente che si affida al pronto soccorso
per superare file e risparmiare. Contribuisce a limitare l’offerta
anche la riduzione del personale: è stata dell’1,8 per cento tra il 2007
e il 2013 e di un ulteriore 0,6 nei primi mesi del 2014. Vale la pena
citare le parole dell’Upb che sintetizzano il senso dello studio diffuso
nei giorni scorsi: «Emergono alcuni segni di limitazione dell’accesso
fisico (razionamento) ed economico (compartecipazioni) e tracce di una
tensione nell’organizzazione dei servizi, legata alla limitatezza delle
risorse finanziarie e umane, che potrebbero rive-larsi insostenibili se
prolungate nel tempo». Linguaggio tecnico, ma inequivocabile.
Gli
ampi passaggi dello studio degli uffici del Parlamento italiano, che
riguardano i ticket, confermano la situazione di allarme. L’Upb spiega
che per molte prestazioni l’aumento delle compartecipazioni ha «reso
conveniente optare per il settore privato ». Del resto il rincaro c’è
stato ed è evidente: i ticket sono aumentati del 33 per cento tra il
2010 e il 2014. Se si guarda alla sola spesa per ticket farmaceutici
l’aumento è stato del 50 per cento, mentre sulla specialista
ambulatoriale, a seguito del superticket da 10 euro per ricetta, è
salito al 19 per cento nel biennio 2001-2012.
Tagliare
ulteriormente e in modo indiscriminato può portare conseguenze
disastrose, se non si interviene sull’obiettivo principale: gli sprechi
che, come segnala opportunamente l’Ocse, non a caso citata nel rapporto
Upb. Basta guardare alla spesa per beni e servizi, prodotti farmaceutici
compresi, che è l’unica a continuare a correre. La spending review
dovrà servire anche per reindirizzare verso i servizi quello che oggi
ingrassa spesso rendita e malcostume.