Repubblica 18.1.16
Le parole della guerra secondo Malaparte
di Karl Ove Knausgard
“Così ho capito perché ogni conflitto è un errore di sintassi” Ove Knausgard legge “Kaputt”
«Le
guerre, in un certo senso, sono degli errori di sintassi». Questa
insolita affermazione, che sembra assimilare le inconcepibili sofferenze
umane della guerra all’ordine delle parole sulla carta, è tratta da
“Kaputt”, il romanzo di Curzio Malaparte pubblicato in Italia nel 1944,
vale a dire negli ultimi spasmi di agonia della seconda guerra mondiale.
La frase compare in una conversazione di tono leggero, allegro, quasi
come un inciso: «Il linguaggio ha una grande importanza», dissi «non
soltanto per gli scrittori, ma per i popoli e per gli Stati. Le guerre,
in un certo senso, sono degli errori di sintassi». Leggendo Kaputt per
la prima volta queste parole mi si sono impresse nella mente, non solo
perché fornivano una chiave di lettura del meraviglioso romanzo, ma
anche perché sembravano possedere una validità che andava ben oltre
l’opera.
La lingua è un fenomeno collettivo, comune a tutti gli
appartenenti a una comunità linguistica e l’individualità che esprimiamo
attraverso la lingua non è mai esaustiva, porta con sé una cultura, una
percezione del mondo, del tempo e della storia – tutte queste
componenti sono insite nella nostra lingua, negli strati di significato
trasmessi dai suoi vocaboli, nelle associazioni cui dà vita, nella sua
risonanza e nella sua sintassi. Poiché la nostra identità è legata a
quella della comunità, che a sua volta è legata alle denotazioni della
lingua specifica, può essere arduo percepire questo aspetto collettivo
della nostra esistenza: noi vediamo il mondo, non il linguaggio
attraverso cui è visto; vediamo noi stessi, non il linguaggio attraverso
cui siamo visti.
Qualche anno fa collaborai come consulente alla
traduzione della Bibbia in norvegese. Il lavoro consisteva in parte
nella lettura di altre traduzioni della Bibbia, dal diciassettesimo
secolo ai giorni nostri. Lavoravo in un gruppo che aveva il compito di
tradurre il Pentateuco, ossia la Torah, e scoprii che già le traduzioni
delle prime sole tre frasi contenevano mondi nascosti e che ne
emergevano differenze di visione del mondo impressionanti, anche tra
paesi così prossimi sotto il profilo linguistico, come la Norvegia, la
Danimarca e la Svezia. Voglio fare un esempio. La nostra traduzione in
norvegese, qui glossata in italiano, più o meno recitava così: «La terra
era desolata e vuota, era buio sull’abisso, e lo spirito di Dio era
sulla faccia delle acque».Se guardiamo alle varianti scandinave, la
traduzione svedese del 2000 recita a grandi linee: «La terra era
desolata e vuota, la tenebra ammantava l’abisso e il vento di Dio
attraversava rapido le acque». La differenza importante qui è che lo
spirito di Dio si è trasformato in vento di Dio. L’effetto è un
avvicinamento del divino agli elementi terrestri, fino al punto quasi di
inglobarlo e cancellarlo completamente. Perché la terra l’abisso e il
vento sono tutti fenomeni a noi familiari, al contrario del misterioso
“spirito di Dio”. Nella Bibbia norvegese il mondo è rappresentato come
statico: la terra è desolata e vuota, il buio è sull’abisso, lo Spirito
di Dio è sulle acque. È il mondo prima che prenda forma, un quadro di
caos. Nella Bibbia degli svedesi questo elemento statico diventa
dinamico: il vento attraversa rapido le acque facendo pensare a un mondo
realistico pre-umano piuttosto che a un mondo mitologico. Tutto deriva
da due verbi e da un aggettivo, da una virgola al posto di un punto. La
cultura è questo: il significato che emana dalla parole che scegliamo e
dall’ordine in cui scegliamo di metterle.
Quindi la lingua crea identità...
Gli
errori di sintassi implicano un cambio di ordine, uno spostamento di
significato, un minimo cedimento delle leggi generali della lingua. Uno
dei più bei libri che ho letto sugli eventi in Germania all’inizio degli
anni Trenta del Novecento, l’epoca di cui Malaparte in Kaputt racconta
le ripercussioni, è opera di Victor Klemperer e si intitola LTI – Lingua
Tertii Imperii, ossia La lingua del Terzo Reich. LTI è una
testimonianza diretta del Terzo Reich visto dall’interno – non di come
la vita all’interno fosse diventata difficile e sempre più violenta nel
corso degli anni’30 fino agli anni ’40, ma piuttosto di come fosse
cambiata la lingua. A Lipsia viene instaurata una commissione per la
nazionalizzazione dell’università. Su una bacheca nel dipartimento di
Klemperer si legge: «Se un ebreo scrive in tedesco, mente». Il termine
Volk – traducibile nel modo più semplice con “popolo” – è presente
ovunque, in ogni contesto:
Volksfest (“festa popolare”),
Volksgenosse (“appartenente alla stessa etnia”), Volksgemeinschaft
(“comunità etnica”), volksnah (”vicino alla gente”), volksfremd
(“estraneo al popolo”), volksentstammt (“che viene dal popolo”).
All’epoca
il nazismo era al potere solo da qualche mese. La novità non giunse dal
di fuori, ma dal di dentro, e non come qualcosa di sconosciuto, bensì
come amplificazione del già noto, ed ebbe luogo nella lingua. Gli ebrei
furono raschiati via dal linguaggio e inseriti in un mondo senza alcuna
identità, in cui erano corpi senza nome, con solo un numero, da stipare
infine come bestiame nei vagoni e trasportare nei campi di sterminio.
Malaparte vede e descrive l’esito in Kaputt: «Il carro a un tratto si
aprì e la folla dei prigionieri si precipitò su Sartori, lo buttò a
terra e gli si ammucchiò addosso. Erano i morti che fuggivan dal carro.
Cadevano a gruppi, di peso, con un tonfo sordo, come statue di
cemento... Le mosche ronzavano rabbiose. I morti, distesi in fila lungo
la scarpata della ferrovia, erano circa duemila. Eh, duemila cadaveri
allineati sotto il sole, son molti. Son perfino troppi».
Kaputt è
il più bel libro sulla guerra che io abbia mai letto. E credo che il
motivo sia proprio che Malaparte è preso dalla lingua quanto dalle
persone, perché intende le sofferenze della guerra come risultato di un
errore di sintassi, perché il suo è un punto di vista estetico più che
etico, specificamente non etico: così, con il suo punto di vista
estetico, il suo linguaggio estetico, Malaparte è avulso dalla politica,
avulso dall’ideologia, avulso dalla morale. Tutte e tre le categorie –
politica, ideologia, morale – appartengono alla collettività. Solo la
collettività combatte guerre. E solo un individuo amorale, apolitico e
privo di qualunque fede potrebbe riuscire a scrivere un libro come
Kaputt, in cui la guerra è descritta quasi senza alcun riferimento al
combattimento, ma in termini di vita vissuta in luoghi remoti, scevra da
teorie superiori o modelli interpretativi: Malaparte descrive ciò che
vede, esattamente dove si trova.
Il suo libro ha un effetto molto
simile letto oggi, perché gli avvenimenti raccapriccianti che hanno
luogo nel mondo esterno sono descritti in un linguaggio che ci
intorpidisce e ci rende insensibili, i morti sono numeri, solo noi
abbiamo dei nomi. E mentre tutto questo può sembrare inevitabile, e non
ci si può far carico dei tormenti del mondo, si può tuttavia capirne la
realtà facendosi straziare dalla letteratura che se ne occupa.
Copyright © 2015 Karl Ove Knausgard . Traduzione di Emilia Benghi