Corriere 18.1.16
Il film del Mereghetti
Quel padre in cerca di riscatto tra gli orrori della Storia
L’autore
László Nemes, nato a Budapest il 18 febbraio 1977, con il suo film di
debutto «Il figlio di Saul» è stato premiato a Cannes L’attore Röhrig è
inseguito dall’obiettivo della macchina da presa: riempie lo schermo
negando visibilità al resto
L’ungherese Nemes agli Oscar con il dramma di un ebreo collaborazionista
A
volte i film chiedono allo spettatore di dare delle risposte sulle
storie che raccontano, sulle ragioni che hanno spinto il regista a
scegliere proprio quei fatti. Ma a volte, e sono i film più esigenti,
interrogano chi guarda anche sul modo in cui quelle storie sono
raccontate, perché lo stile della messa in scena («dove mettere la
macchina da presa» si potrebbe dire in un eccesso di semplificazione)
finisce irrimediabilmente per influire sul racconto, sulla narrazione.
Il
figlio di Saul , opera prima dell’ungherese László Nemes, Gran premio
della giuria all’ultimo festival di Cannes, nominato agli Oscar come
miglior film straniero, è uno di questi perché il modo in cui è filmato
influisce immediatamente sulla materia raccontata, gli dà una «forma»
che non è ininfluente nel determinare il significato del film. Anzi, il
senso nasce proprio da lì, da come Nemes e il suo direttore della
fotografia Mátyás Erdély raccontano e filmano le azioni di Saul. Che è
un ebreo rinchiuso ad Auschwitz nel 1944. Il suo volto, con i lineamenti
spigolosi del poeta Géza Röhrig, lo vediamo emergere da una specie di
magma indistinto, fatto di colori e ombre che a stento, in secondo
piano, fanno intuire altre persone e altre azioni. Lui invece, Saul, è
come inseguito perpetuamente dall’obiettivo della macchina da presa:
riempie lo schermo negando visibilità al resto. A volte viene messo a
fuoco anche il volto di un altro prigioniero, ma solo per il tempo
necessario a entrare in rapporto con Saul, a scambiare qualche stentata
parola con lui. Altrimenti è solo di Saul che la macchina da presa (e la
regia) si interessano.
Lui, il protagonista, è un membro di un
Sonderkommando, quei gruppi di prigionieri scelti per aiutare i nazisti a
svolgere le tragiche funzioni di un campo di sterminio: raccogliere gli
abiti delle persone mandate nelle camere a gas, ammassare i corpi morti
e portarli nei forni, disperderne le ceneri, pulire i pavimenti per non
far capire ai prossimi condannati quello che li aspetta. In cambio
hanno un po’ di cibo in più, la possibilità di appartarsi con alcune
prigioniere, regole meno disumane ma anche la certezza che il loro
destino non sarà diverso da quello degli altri ebrei: i nazisti non
possono lasciare testimoni. Per questo stanno cercando di organizzare
una fuga.
Un giorno però, Saul crede di riconoscere in un cadavere
il figlio di cui non aveva più notizie e decide di assicurargli una
sepoltura secondo i canoni della fede ebraica. Per questo dovrà trovare
un rabbino disposto a dire le preghiere ma rischia, con i suoi
comportamenti fuori dalle regole, di attirare la reazione delle guardie.
Sceglie «di tradire i vivi per i morti» gli dice un membro del suo
stesso Sonderkommando e l’affermazione ha qualcosa di tragicamente
ironico, visto che nessuno può davvero considerarsi là dentro un essere
«vivo». Ma al di là dei fatti raccontati nel film quello che colpisce al
cuore lo spettatore è proprio come tutto questo è raccontato.
Risale
almeno al documentario di Alain Resnais Notte e nebbia (1955) e
all’articolo di Jacques Rivette contro Kapò di Pontecorvo (del 1961), la
riflessione sull’«impossibilità» di filmare la Shoah. O comunque sul
rischio di trasformare in «spettacolo» una tragedia così sconvolgente.
Nemes questo rischio lo ha molto ben presente e per aggirarlo compie due
precise scelte, una narrativa e una estetica.
Con la prima
racconta la storia di uno dei «traditori» che accettarono di entrare in
un Sonderkommando spingendolo però, con l’accidente narrativo del corpo
da seppellire religiosamente, a mettere in discussione proprio quella
scelta (voluta o subita poco importa). Con la seconda, sceglie di non
mostrare niente che non sia il volto del suo protagonista (e pochi altri
prigionieri) lasciando indistinto sullo sfondo quello che quei campi
significavano e mettevano in opera.
In questo modo Nemes non
chiude gli occhi di fronte alla Storia, riflette sui limiti del
rappresentabile che il cinema deve porsi (che cosa si può far vedere in
un film?) ma soprattutto chiede allo spettatore di confrontarsi con quei
temi morali che la Shoah continua a sollevare e che nessuno potrà mai
cancellare.