Repubblica 18.1.16
In uno schizzo del David ritrovato la conferma della rivalità tra i due geni
Se Leonardo per invidia cancella Michelangelo
di Tomaso Montanari
Alcuni
ricercatori della British Library sono riusciti – attraverso
un’indagine multispettrale – a far riemergere un disegno che Leonardo
preferì cancellare. Una gran cosa, come se tornasse leggibile un verso
ignoto di Dante: felice è quel paese le cui biblioteche non solo sono
aperte, ma addirittura ospitano attivissime comunità di ricerca. Secondo
Martin Kemp, tra i massimi studiosi vinciani, quello schizzo
rappresenterebbe il David di Michelangelo, e Leonardo lo avrebbe cassato
perché non fosse evidente la sua ammirazione per il più giovane
artista. Impossibile escluderlo, anche se le varianti della posa sono
così cospicue da non rendere tanto ovvia la derivazione dal colosso
marmoreo.
Quanto all’invidia, chi non vorrebbe poter sapere cosa
passava per la testa di Leonardo quando vedeva un’opera di Michelangelo,
e viceversa? È Giorgio Vasari, cioè il più fedele apostolo del culto
divino di Michelangelo, ad ammettere che «era sdegnio grandissimo tra
Michelangelo Buonarroti e Leonardo, per il che partì di Fiorenza
Michelangelo per la concorrenza». I due si fronteggiarono direttamente
almeno in una occasione, quando furono chiamati – Leonardo nel 1503,
Michelangelo l’anno successivo – ad affrescare le pareti del Salone del
Gran Consiglio in Palazzo Vecchio, quello che poi Vasari trasformerà
nell’attuale Salone dei Cinquecento.
In questo spazio immenso, che
pare nato per propiziare ogni megalomania, i due giganti si
confrontarono tra loro, e ciascuno lottò con le proprie ossessioni e i
propri fantasmi: il moto dei corpi per Michelangelo, quelli dell’anima
per Leonardo. Quest’ultimo non riuscì mai a compiere la Battaglia di
Anghiari, che colò lungo la parete a causa della tecnica cervellotica
con cui la volle realizzare, non lasciando traccia alcuna. Michelangelo,
a sua volta, non iniziò nemmeno a dipingere la Battaglia di Cascina,
che rimase su un cartone: poi venerato, insieme a quello di Leonardo,
come la «scuola del mondo» (nelle parole ispirate di Benvenuto Cellini).
Leonardo da Vinci rimase certo sconcertato dall’energia quasi mostruosa
del giovane Michelangelo. Ma non dovette mai esserne propriamente
invidioso – l’invidia essendo quel peccato capitale che porta a
desiderare il male di chi ha qualcosa che non abbiamo, e che vorremmo
avere.
Il 25 gennaio 1504 – e cioè nel pieno del confronto tra le
due Battaglie – Leonardo fu nominato nella commissione che doveva
decidere proprio dove mettere il David. Tempi felici, in cui la
collocazione delle statue fiorentine non era decisa da un sindaco, ma da
Andrea della Robbia, Filippino Lippi, Botticelli, i Sangallo,
Sansovino, Perugino e appunto Leonardo. Quest’ultimo non provò a nuocere
in alcun modo al rivale, e propose di porre la statua sotto la Loggia
dei Lanzi, luogo di assoluto rilievo. Certo, con qualche malizia si
potrebbe notare che Leonardo motivò questa collocazione con l’argomento
che lì essa non avrebbe intralciato le liturgie civili che avvenivano di
fronte al Palazzo («in modo non guasti le cerimonie degli uffici»). Ma
non c’era artista che non fosse profondamente colpito dal gigante di
marmo che tolse «il grido a tutte le statue antiche e moderne» (Vasari):
tra questi il giovane Raffaello, che dorò la ghirlanda di metallo con
cui si ornò il David, e ne studiò il tergo in un celebre foglio.
Leonardo non faceva eccezione: in un disegno oggi a Windsor Castle egli
copiò sicuramente il David, e non solo non lo cancellò, ma lo ripassò a
penna, trasformandolo in un Nettuno con sotto dei cavalli marini, in un
possibile progetto per fontana. Più emulazione che invidia, dunque. A
quelle vette, d’altra parte, il vento dello spirito doveva soffiare
troppo forte per lasciare crescere la pianta cattiva dell’invidia. Il
che, naturalmente, non escludeva le battutacce. Un secolo dopo, Gian
Lorenzo Bernini raccontò che quando Michelangelo vide la Danae di
Tiziano, sibilò che se Dio avesse consentito ai veneziani di imparare
anche a disegnare (oltre che a colorire), ne avrebbe fatto dei
superuomini. Chissà se Bernini pensava ai suoi terribili rapporti con
Francesco Borromini, che osò bollare come eretico in architettura: e
qui, non c’è dubbio, parlava l’invidia