Repubblica 18.1.16
Il premier euro-tattico
di Ilvo Diamanti
LA
POLEMICA fra Jean-Claude Juncker e Matteo Renzi è esplosa in modo
improvviso, ma non casuale. È, infatti, stata aperta, in modo esplicito,
dal presidente della Commissione europea, stanco «di sentirsi insultato
da un governo che abbiamo sempre favorito». Renzi, da parte sua,
recrimina contro i vincoli e i freni imposti al governo italiano in
numerose occasioni. Di recente: in merito all’emergenza migranti, alla
flessibilità sul deficit, fino al salvataggio delle banche in sofferenza
e, in questi giorni, al prestito erogato a favore dell’Ilva.
LE
PAROLE risentite di Juncker nei riguardi di Renzi, dunque, hanno
sorpreso per i toni, particolarmente accesi. Ma riflettono un conflitto
lungo e reiterato. Che Renzi non si è preoccupato di mantenere
sottotraccia. Anzi, ho il sospetto che la polemica con Juncker sia
stata, in qualche misura, provocata. Alla ricerca di un palcoscenico
visibile. In ambito europeo, ma anche nazionale. “Europeo”, per
esercitare pressione, nei confronti della Ue. Ma soprattutto
“nazionale”, come ha sostenuto Eugenio Scalfari, nel suo editoriale di
ieri. Dove ha attribuito a Renzi l’intenzione di “colpire con una
ventata di nazionalismo l’opinione pubblica italiana”. Per reagire al
clima antipolitico che soffia sul Paese. Personalmente, ritengo che la
strategia comunicativa di Renzi segua una precisa logica di marketing
politico. Volta a sottrarre il tema (anti)europeo ai principali
avversari politici. E, nello stesso tempo, ad allargare i confini del
proprio “mercato elettorale”. Il conflitto con la Ue, infatti, riflette
fedelmente un sentimento diffuso nel Paese.
La fiducia nella Ue,
dopo l’entusiasmo in fase d’avvio della moneta unica, si è
progressivamente raffreddata. Fino a divenire largamente minoritaria.
Mentre l’anti-europeismo è divenuto una bandiera, agitata, in Europa e
in Italia, da forze politiche “definite” — in modo un po’ “indefinito” —
populiste. Con successo. Si pensi al Fn di Marine Le Pen, in Francia.
E, in Italia, alla Lega di Salvini. Inoltre, al M5s. Oltre ai Fratelli
d’Italia. Ma, in modo meno palese, anche a Forza Italia. Se facciamo
riferimento alle stime elettorali più recenti (di Ipsos), nell’insieme,
questi partiti rappresentano, da noi, circa il 57% della base elettorale
(che vota). Così si spiega come la fiducia nella Ue, in Italia, si sia
ridotta ormai al 30%. Espressa, dunque, da meno di un terzo della
popolazione. Distribuita in modo diverso, in base alle preferenze
politiche. La fiducia, infatti, risulta minima, 13-15%, fra gli elettori
di Lega e Forza Italia. Più estesa, ma comunque limitata (intorno al
25%), nella base elettorale del M5s e nell’area grigia degli indecisi.
Per contro, appare largamente superiore alla media tra gli elettori del
Pd e della Sinistra. Presso i quali la fiducia nella Ue raggiunge il
50%.
Così si spiega meglio la polemica di Renzi contro (o meglio,
verso) il governo dell’Unione Europea. Soprattutto, in prospettiva
“interna”.
La questione europea, anzi, anti-europea costituisce,
infatti, un’occasione, una risorsa. Per sottrarre agli avversari
politici un argomento polemico. E per cercare di intercettare nuovi
settori dell’elettorato. In una fase fluida, nella quale gli elettori
incerti esprimono distacco dalle istituzioni. E, in particolare, dalla
Ue. Riferimento critico dell’insicurezza economica, ma non solo. Vista
l’inquietudine prodotta e riprodotta dagli attentati e dagli episodi di
violenza avvenuti, di recente, in Europa e oltre. Matteo Renzi, così,
usa i temi — anche se non il linguaggio — del M5s, della Lega, di Fi.
Per rivolgersi ai loro elettori, ma anche agli indecisi. E lasciare gli
avversari politici “senza parole”.
D’altronde, come si è detto
altre volte, l’Europa appare ormai un progetto ipotetico, quasi
immaginario. Che non riesce a realizzarsi, sul piano politico,
soprattutto di fronte alle grandi emergenze di questa fase. Così rischia
di divenire un non-progetto, al tempo dell’antipolitica e dei
non-partiti. Tanto più se, come in questa fase, tornano i muri e le
frontiere. Che, per dividere l’Europa dagli “altri”, in fuga dal Sud del
(nostro) mondo, dividono anche l’Europa, al proprio interno. E gli
europei (?) dall’Europa. Così Renzi, oggi, si presenta alla guida degli
euro-critici in Europa. Conta, in questo modo, di aumentare il proprio
potere di pressione all’esterno. Mentre, in Italia, interpreta la parte
di leader degli euro-delusi. E si rivolge agli euro-scettici, ma anche
agli anti- europei. Offre loro cittadinanza e rappresentanza.
È il
passaggio strategico di una lunga campagna elettorale. In vista delle
prossime elezioni amministrative di primavera, insidiose per Renzi e il
Pd. Ma, a maggior ragione, in vista del referendum d’autunno. Volto,
formalmente, a confermare la riforma costituzionale, che ridimensiona il
ruolo del Senato. Ma, di fatto, indirizzato a fini politici, più che
costituzionali. Un test per garantire al premier la legittimazione
elettorale che, fin qui, non ha ancora avuto. Superando un problema che,
per quanto è possibile intuire, angustia Renzi sul piano personale,
oltre (e prima ancora) che politico.
Naturalmente, la strategia
euro-critica di Renzi presenta i suoi rischi. In primo luogo, espone il
governo italiano alle ritorsioni dei partner europei. Anzitutto, della
Germania. Se costretto a ripiegare, peraltro, Renzi pagherebbe un grave
danno di immagine, oltre che sul piano della forza contrattuale.
Sul
piano nazionale, invece, il rischio è di legittimare gli avversari
politici, invece di indebolirli. Spingendo gli elettori insoddisfatti
della Ue a sostenere i soggetti politici antieuropeisti “doc” invece dei
“convertiti” dell’ultima ora.
Ma il rischio maggiore, per Renzi, è
di finire nella “terra di nessuno”. Senza una vera identità. Né
europeista, come la propria base elettorale. Né euro- scettico, come gli
elettori che vorrebbe intercettare. Ma euro- tattico.
E, dunque, alla fine, solo. Senza bandiera. Senza veri nemici. E senza veri amici.