Repubblica 17.1.16
I Fratelli diversi
di Enzo Bianchi
NELLE
scorse settimane è stato pubblicato da un organismo della chiesa
cattolica, la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, un
documento che vuole fare il punto sulla situazione dei rapporti tra le
due comunità di fede. È un testo coraggioso, nel quale si afferma con
ancora maggior precisione e convinzione l’accettazione piena da parte
della chiesa della Bibbia ebraica, detta Antico Testamento, e si
confessa l’unità dei due Testamenti, precisando però con chiarezza che
la chiesa legge le Scritture ebraiche attraverso l’ermeneuta definitivo,
Gesù Cristo.
Proprio dall’Antico Testamento, infatti, sono nate
le due fedi, e sul rispettivo modo di leggere e interpretare le stesse
Scritture sono restate unite e, nello stesso tempo, si sono separate.
L’ebraismo post-biblico mise al centro della lettura la Torah, la legge,
facendo sua l’eredità dei maestri farisei dopo la distruzione del
tempio di Gerusalemme (70 d.C.); il cristianesimo, invece, accolse
l’Antico Testamento ma lo vide realizzato in Gesù di Nazaret. A dire il
vero, dunque, ebraismo e cristianesimo nascono dallo stesso ceppo come
due fratelli gemelli, sebbene non simmetrici. Per la chiesa Israele
resta il popolo delle promesse e delle benedizioni, in un’alleanza con
Dio mai revocata e tuttora in vigore, mentre per Israele il
cristianesimo resta ancora enigmatico e non da tutti gli ebrei viene
letto e percepito teologicamente. Con questa consapevolezza, si registra
sia nella chiesa sia nell’ebraismo una grande volontà di
collaborazione, soprattutto per l’azione redentrice del mondo, per la
giustizia, la pace e la qualità della vita sulla terra.
Restano
tuttavia dei problemi. La chiesa non può ammettere un’altra via di
salvezza che non sia quella aperta da Gesù. Resta perciò un mistero come
i due popoli, per ora separati, possano camminare verso la salvezza su
vie così distinte, vie che per i cristiani portano a Cristo. In ogni
caso, nel “frattempo”, la chiesa non organizza la missione
evangelizzatrice verso gli ebrei e si vieta ogni forma di proselitismo. A
distanza di 150 anni da quando fu fondata una congregazione per la
missione verso gli ebrei e la loro conversione, la chiesa confessa di
non ritenere più opportuna la pratica di quella via.
Se questa è
la situazione fin qui maturata, non vanno tralasciati due elementi di
frizione. Il primo si è manifestato più volte nei confronti di papa
Francesco e del suo uso dei termini “farisei”, “scribi” e “dottori della
legge”. Nei vangeli vi è polemica e condanna, anche sulle labbra di
Gesù, nei confronti di queste componenti e figure rappresentative del
popolo ebraico. Ebbene, papa Francesco, e non solo lui, non specifica
ogni volta che il riferimento non riguarda tutti i farisei, tutti gli
scribi, tutti i dottori della legge, ma che con queste espressioni si
vuole ammonire quei cristiani, quegli ecclesiastici che oggi nella
chiesa ripetono quei comportamenti patologici. Il rabbino capo di Roma
ha rimproverato questo linguaggio al Papa, contestandogli la
connotazione negativa del termine “farisei”, i padri dell’attuale
ebraismo, che hanno salvato l’eredità veterotestamentaria e trasmesso la
fede ebraica fino a oggi. È vero, i cristiani spesso citando il Nuovo
Testamento non precisano che solo alcuni farisei, alcuni scribi, alcuni
capi del popolo dei giudei hanno contraddetto Gesù, polemizzato con lui e
infine l’hanno condannato, perseguitando poi la chiesa nascente.
Dunque
questa tipizzazione, negativa come tutte le tipizzazioni, va
abbandonata; ma gli ebrei devono ricordare che gli stessi rabbini
polemizzavano con queste figure del tempo di Gesù. Anche nella
tradizione talmudica troviamo una tipizzazione del fariseo. Si legge:
“Non temere né i farisei né coloro che non sono farisei, ma temi gli
ipocriti che sono simili ai farisei”. Il Nuovo Testamento e i cristiani,
quando denunciano i farisei, pensano in primo luogo a se stessi, ai
legalisti, agli ipocriti, a quelli che ostentano la loro religiosità e
vantano meriti. Il vizio denunciato è antropologico e certo è presente
negli uomini religiosi, per i quali Dio è giustificazione a causa non
del loro comportamento, ma della loro appartenenza identitaria. Quando
dunque il rabbino Di Segni afferma che «questo linguaggio del Papa è
pericoloso per l’ebraismo» non coglie l’intenzione né di Francesco né
dei cristiani, che non vogliono giudicare gli ebrei ma la loro propria
comunità, i propri membri, affetti dalle patologie riscontrabili in
qualsiasi istituzione religiosa.
Il secondo elemento critico è
quello che resta ancora oggi come una ferita aperta: la diversa
comprensione della terra di Israele e del legame con essa. Noi cristiani
comprendiamo che per gli ebrei la terra di Israele è, secondo
l’ermeneutica da essi praticata sulla Bibbia ebraica, un dono di Dio
rispondente alle promesse fatte ad Abramo e ai padri e che, di
conseguenza, sentano un rapporto inscindibile tra la loro fede e quella
terra. Ma gli ebrei devono a loro volta comprendere che proprio Gesù, da
cui noi nasciamo come cristiani, ha spezzato quel legame con la terra,
così come ha spezzato i vincoli con i legami di sangue e con il tempio.
Se siamo coerenti con il Vangelo, noi cristiani non abbiamo né patria né
terra: siamo pellegrini in ricerca e attesa della patria celeste. Non
neghiamo agli ebrei il diritto a un assetto politico e statale, ma
affermiamo che tutti gli umani devono costruire la società nella
giustizia, nel rispetto dell’altro e nella solidarietà con gli altri,
anche stranieri. La concezione del legame che gli ebrei hanno con la
terra richiede che siano rispettate la giustizia, la libertà e la
fraternità con tutti, senza che si ergano nuove barriere e muri di
separazione. In questa azione gli ebrei troveranno sempre i cristiani
fedeli al Vangelo come fratelli e sorelle solidali, accanto a loro e
pronti a spendere la vita per loro, affinché il popolo di Israele viva.
Priore della comunità monastica di Bose