Repubblica 17.1.16
I tabù del mondo
La follia di Narciso divenuta trappola del nostro tempo
L’epoca
in cui viviamo ha esaltato la figura raccontata da Ovidio come emblema
di un soggetto che basta a se stesso e che vorrebbe annullare la
dipendenza dall’Altro. L’Io è diventato il nuovo idolo pagano
altrettanto superstizioso di quelli che la ragione critica
dell’illuminismo è riuscito a smascherare
Lacan lo diceva a suo
modo: il problema non è più quello di distinguere la preda dall’ombra,
ma di essere tutti noi prede della nostra stessa ombra
di Massimo Recalcati
Caravaggio,
seguendo il mito raccontato da Ovidio, ci presenta il giovane Narciso
affacciato sulle acque che gli restituiscono — in una perfetta simmetria
avvolta dal buio — la sua immagine adorata. La bellezza di Narciso
contiene, si capisce, una trappola mortale: la fascinazione per se
stessi può essere fatale. È quello che accade anche nel mito: nel
tentativo di afferrare la propria immagine riflessa il giovane Narciso
sprofonda nell’abisso delle acque perdendo la propria vita. Freud aveva
coniato da questo mito una figura fondamentale della clinica
psicoanalitica: il narcisista è colui che perde la propria vita restando
alienato nell’infatuazione esaltata ma sterile per la propria immagine.
Nel mito di Ovidio Narciso è, infatti, colui che suscita ammirazione e
amore, ma che non può, a sua volta, né provare, né ricambiare in nessuna
forma. L’anestesia affettiva è un tratto anche clinico della
personalità narcisistica che segnala la sua impossibilità di entrare in
una forma di legame con l’altro in quanto tutta la sua libido appare
sequestrata dal proprio Io. Non a caso per Freud l’Io è il primo oggetto
di investimento libidico, il suo “serbatoio” originario. Il che
significa che l’essere umano non nasce predisposto all’altruismo, ma,
casomai, al culto di se stesso. Il narcisismo definisce la tendenza
egocentrica dell’uomo che contrasta radicalmente con la tesi
aristotelica dell’uomo come animale sociale: il nostro Io è il primo
grande e insidioso idolo alla cui potenza immaginaria la nostra vita si
consacra.
L’illusione narcisistica vorrebbe cancellare il tabù
della dipendenza dell’uomo dall’Altro. Il suo fantasma è
partenogenetico, esclude ogni fecondazione dell’Altro. Il suo disegno è
quello dell’auto-costituzione, dell’auto-fondazione,
dell’auto-realizzazione. Mai nessun tempo come il nostro ha esaltato a
dismisura la figura di Narciso come emblema di un soggetto che basta a
se stesso, indipendente, autonomo. È una patologia non solo individuale.
Narciso può, come nel mito di Ovidio, innamorarsi solo di ciò che gli
assomiglia, solo della propria immagine ideale; egli non conosce
l’alterità, non conosce l’amore come esposizione assoluta verso il
dissimile. Il fantasma di autoconsistenza che governa la vita di Narciso
ispira da capo a piedi il mito neo-liberale del “farsi un nome da sé”.
Esso domina le nostre vite come una vera e propria forma pagana di
idolatria. L’ideale seduttivo dell’auto-generazione vorrebbe negare ogni
debito, ogni provenienza dall’Altro nutrendo la credenza folle dell’Io
che basta a se stesso.
Tuttavia, il mito di Narciso non si limita a
mostrare la potenza seduttiva dell’illusione di farsi un nome da sé, ma
ne evidenzia anche il rischio mortale. Narciso vorrebbe cancellare la
distanza che lo separa da se stesso, reintegrare il suo doppio che vede
riflesso, negare quella divisione che attraversa tutti noi impedendoci
di credere troppo al nostro Io. Nessuno di noi, infatti — salvo i grandi
paranoici — può pensare di coincidere perfettamente con l’Io che crede
di essere. Nel tentativo di realizzare questa coincidenza, Narciso perde
la sua vita. Per questa ragione Lacan ha messo in evidenza il carattere
profondamente suicidario del narcisismo umano: idolatrando la propria
immagine, perseguendo il sogno onnipotente di cancellare l’alterità, il
sogno di Narciso naufraga nell’abisso oscuro delle acque. Credere di
essere un Io è, infatti, la malattia umana per eccellenza, la follia più
grande, la forma più subdola e pericolosa di idolatria. Se la modernità
ha segnato il tempo della giusta emancipazione dell’Io dagli
oscurantismi irrazionali della superstizione, se la voce di Kant ha
definito la stagione dei lumi come l’uscita necessaria dell’uomo dal suo
stato di minorità, l’epoca ipermoderna, quella in cui viviamo, non ha
forse trasformato l’Io stesso in un nuovo idolo pagano, altrettanto
superstizioso di quelli che la ragione critica dell’illuminismo ha
smascherato nella loro impostura? Bisognerebbe forse rileggere in questa
luce un testo di immutata attualità com’è la Dialettica
dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer per cogliere sino in fondo la
portata di questo ribaltamento epocale: l’Io si emancipa dalle ombre
della superstizione religiosa per trasformarsi esso stesso in un’ombra
altrettanto inquietante. Lacan lo diceva a suo modo: il problema non è
più quello di distinguere la preda dall’ombra, di emanciparsi
dall’ombra, ma di essere tutti noi prede della nostra stessa ombra.
Narciso è l’ombra spessa di cui l’uomo ipermoderno è preda. La sua
passione furiosa, la sua superbia capricciosa, vorrebbe annullare lo
scarto che lo separa da se stesso negando ogni forma di dipendenza
dall’Altro. Questa è la sua follia mortale che il nostro tempo ha
elevato ad una sorta di nuovo comandamento sociale. Senza dimenticare
però che le forme forse più nocive del narcisismo sono quelle passive,
della falsa umiltà, del rigetto dell’ambizione, della vita schiva, ma
avvelenata. Si tratta, in realtà, solo del retro di una stessa medaglia:
lo sguardo torvo del risentito — scolpito magistralmente da Nietzsche
ne La genealogia della morale — odia la vita capace di realizzarsi
invocando l’umiltà e il nascondimento solo come segni grigi della sua
impotenza rabbiosa. In essa dimora più che mai lo spettro narcisistico
che anima, al suo fondo, ogni forma di invidia umana.