il manifesto 16.1.16
Sean Penn, «volevo parlare della guerra alla droga, ho fallito lo scopo»
Usa. L'attore rompe il silenzio in tv dopo lo «scandalo» dell’intervista a «El Chapo»
di Cristina Piccino
Ho
fallito. Lo ha ripetuto spesso Sean Penn nel corso di 60 Minutes al
conduttore del programma, Charlie Rose. Sono le prime parole pubbliche
dell’attore dopo l’intervista, uscita la scorsa settimana su Rolling
Stones a Joaquín «El Chapo» Guzmán, il boss del narcotraffico messicano
arrestato giorni fa, al momento del loro incontro ancora latitante.
La
fotografia scelta per illustrarla mostrava lui, Penn, la star americana
stringere la mano a «El Chapo» dopo una lunga conversazione: diecimila
battute circa di parole scambiate con l’uomo più ricercato del mondo.
Reazioni indignate, critiche feroci, l’immediata azione (Penn è stato
messo sotto inchiesta) delle autorità messicane che certo non ne
uscivano benissimo dalla vicenda.
Ma come, mentre loro lo
cercavano da mesi con imponente caccia all’uomo, Penn riusciva ad
arrivare indisturbato al suo nascondiglio? Inoltre l’intervista era il
risultato di un incontro di sette ore seguito da scambi via e mail
criptata e ponti telefonici. Tono molto personale, digressioni con cui a
un certo punto paragona El Chapo a Tony Montana/Al Pacino in Scarface
di Brian De Palma), il testo di Penn rimanda abbastanza esplicitamente
alla tradizione di gonzo giornalismo e ha molte più sfaccettature di
quello che è stato sottolineato.
Strumentalizzazione mediatica?
Certamente ma non solo. «L’intervista non è riuscita a centrare
l’obbiettivo per cui era stata pensata, ovvero produrre una riflessione
sulla guerra alla droga» ha detto Penn. E ha aggiunto: «Il clamore che
si è scatenato intorno a questo articolo ha completamente rimosso il suo
scopo originario. Quello che mi interessava veramente era parlare della
guerra alla droga, di cosa significa, della sua importanza. Invece non
se ne è fatto neppure un accenno, l’incontro con Guzman è diventato il
centro di ogni discussione. Questo vuol dire che l’articolo era
sbagliato».
Alla domanda di Rose, se pensa di essere stato
strumentalizzato dalle autorità messicane, Penn ha risposto seccamente:
«Sì» . I messicani infatti hanno lasciato intendere che Penn è stato di
grande aiuto per arrivare al «Chapo». Replica dell’attore: «Sulla visita
che io e i miei colleghi abbiamo fatto a Guzman è stata costruita una
mitologia. Dire che sono stato essenziale per la sua cattura è assurdo.
Noi lo abbiamo visto molte settimane prima, il 2 ottobre e in un posto
lontano da dove poi lo hanno arrestato».
Non è questione di paura,
perché lui non ne ha — «non temo per la mia vita» ha detto. Ma,
appunto, di priorità. «Il governo messicano ha cavalcato la cosa per
coprire la sua umiliazione Come giustificare infatti agli occhi del
mondo il fatto che mentre loro continuavano a cercarlo invano persino io
sono riuscito a trovare Guzman?».
Il vero rimpianto di Penn però è
che alla fine tutto questo non è servito a nulla. L’effetto provocato
dall’intervista ha completamente oscurato il cuore della questione: la
guerra alla droga.
«Mettiamo tutta la nostra energia, la nostra
concentrazione, i nostri bilioni di dollari su un’cattivo ragazo’, e che
cosa accade? Il giorno dopo ci sarà un altro morto e un altro ancora
nello stesso modo».
«Proviamo a guardare il problema da una
prospettiva più ampia. Tutti noi vogliamo la stessa cosa, che il dramma
della droga finisca. Siamo consumatori, che siate d’accordo o no con
Sean Penn questo significa una forma di complicità. E invece quanto
tempo abbiamo dedicato dalla scorsa settimana a parlare di questo? A
essere generosi forse l’%»