giovedì 14 gennaio 2016

Repubblica 14.1.16
Il figlio di Saul
Auschwitz, una vita spezzata dalla ferocia, la compassione dei prigionieri
Dal 21 gennaio “Il figlio di Saul” opera prima dell’ungherese László Nemes
Un padre che resiste all’orrore della Shoah
di Natalia Aspesi

IL NOSTRO dovere internazional popolare l’abbiamo fatto: ci siamo divertiti con Zalone e entusiasmati con Star Wars. Adesso possiamo premiarci, o punirci, con un film che crea affanno, fa battere il cuore, vorremmo rivedere e non dimenticheremo mai Il figlio di Saul (nei cinema dal 21 gennaio), che ha appena vinto il Golden Globe per il miglior film straniero, e al Festival di Cannes aveva ottenuto il gran premio della giuria. Il 27 gennaio è il giorno della memoria e questo primo lungometraggio del giovane regista ungherese László Nemes ci riporta nel precipizio spaventoso del lager di Auschwitz-Birkenau, nel 1944, quando alleati da occidente e russi da oriente (che furono i primi ad arrivare ad Auschwitz, il 27 gennaio del 1945), stavano per invadere la Germania: quindi in quella perfettamente organizzata fabbrica della morte c’era molta fretta, bisognava triplicare il lavoro per eliminare subito più “pezzi” possibile, come venivano chiamati gli umani non umani, che arrivavano in continuazione a migliaia, da altri campi, dai ghetti e soprattutto in quei mesi, dall’Ungheria, da cui furono deportati 440 mila ebrei.
Quella immane mole di “lavoro” non era in mano alle SS, ma agli stessi prigionieri organizzati in Sonderkommando, con i loro feroci kapò armati di bastone, travolti dalla disumanità del luogo, dalla follia indicibile della loro situazione di dannati: per un po’ di cibo in più, per qualche mese di vita in più, anche loro disumanizzati, anche loro precipitati nella follia: con il triangolo giallo gli ebrei, rosso i politici, marrone gli zingari, rosa gli omosessuali, nero i criminali, tutti spezzati dalla loro stessa ferocia e indifferenza, nemici uno dell’altro. Ma la grandezza del film è nel non mostrare ciò che non si può mostrare, l’atrocità della morte, perché nessuno può testimoniare quello che avvenne nelle camere a gas dove i Sonderkommando spingevano la folla terrorizzata e nuda, promettendo che dopo la “doccia”, avrebbero avuto «una zuppa calda».
Saul è uno di questi operai della morte e ha la faccia bella, dura e vuota di Géza Röhrig, un poeta e scrittore ungherese che vive a New York. Lo schermo è sempre occupato dalla sua faccia o dalla sua schiena, stella gialla sul davanti della giacca, una grande X rossa sul dietro per segnalarne il pericolo di fuga. Noi vediamo solo quello che lui vede e fa, senza quasi mai parlare, circondato da un costante frastuono di rumori incomprensibili, di grida indecifrabili, di ordini urlati in lingue intraducibili, di spari furenti, che rappresentano la quotidianità assurda del campo: tutto il resto è sfuocato o invisibile, le colonne dei nuovi continui arrivi, il loro spogliarsi, i loro corpi nudi, i loro cadaveri. Tutto gestito dai Sonderkommando, circondati dalle SS armate: pulizia della camere a gas, trasporto dei cadaveri nei forni caricati a carbone, raccolta di montagne di ceneri da buttare in un lago, in una frenesia dantesca continua, tutto quello che il protagonista vede e sente, ma niente di più.
Facendo il suo “dovere” di automa ormai senz’anima, Saul trova nella camera a gas un adolescente che ancora respira, è vivo, ma il medico SS provvede subito a soffocarlo. E il cadavere di quel ragazzino angelico e sconosciuto che lui dice essere suo figlio, diventa la sua ossessione, il suo gesto di riscatto. Vuole compiere un’impresa impossibile che restituisca alla quotidianità sporca dello sterminio la sacralità della morte: salvare quel corpo dalla cremazione che la religione ebraica non consente, avvolgerlo nudo in un lenzuolo bianco e seppellirlo in terra. Tutto avviene mentre scoppia una rivolta armata (fallita), l’unica di Auschwitz (250 internati morti in combattimento, 200 fucilati), mentre l’arrivo di nuovi morituri (soprattutto dall’Ungheria da cui in quell’anno vennero deportati 440 mila ebrei) diventa sempre più frenetica.
Quando il film è uscito a Budapest e a Parigi, sono ricominciate le discussioni su chi ritiene impossibile e degradante trasformare l’Olocausto in una fiction spettacolare, e chi come il novantenne Claude Lanzmann, autore nell’85 di Shoah, l’agghiacciante documentario di racconti dei sopravvissuti, che criticò molto La lista di Schindler di Spielberg, e invece loda il film di Nemes proprio per la sua intensità e il rispetto della verità che lo rende diverso da tutti gli altri film sull’Olocausto. La storia gliela ha ispirata una raccolta clandestina di scritti dei membri del Sonderkommando nascosti sottoterra, pubblicata in Italia da Marsilio col titolo La voce dei sommersi.
Regia di László Nemes Con Géza Röhrig, Levente Molnar Urs Rechn, Todd Charmont
Laszlo Nemes, già premiato a Cannes, con il Golden Globe per il film straniero