Il Sole 14.1.16
Le incognite di una lunga campagna referendaria
di Paolo Pombeni
Sembra
che il dibattito sulla portata del referendum confermativo della
riforma costituzionale debba incentrarsi sulla questione della liceità o
meno di farne un plebiscito pro o contro Renzi. Se si ragiona a mente
fredda, si vedrà che gli eventi non lasciano scelta. E non è che una
delle tante incongruenze di uno scontro tutto politico che si ammanta di
rinvii a grandi questioni di principio.
Quando si sono passati
mesi a dire che la riforma Renzi-Boschi configurava un colpo di stato,
la fine della democrazia, e varie altre definizioni catastrofiche è poi
difficile sostenere che non si chiamano gli elettori a pronunciarsi pro o
contro la permanenza di Renzi e del suo governo alla guida del paese.
Se infatti le urne sanciranno la vittoria di quelli che sostengono la
tesi della fine della democrazia, è difficile che possa restare in sella
chi ha pianificato e voluto quella operazione così riprovevole. Se, al
contrario, la riforma venisse accreditata del consenso popolare
risulterebbero spiazzati quelli che hanno fatto tanto rumore per nulla:
certo possono sempre cavarsela dicendo che il popolo è stato ingannato e
se ne pentirà amaramente, ma in un sistema come il nostro dove è
difficile negare che ci sia ampio spazio per propagandare tutte le tesi,
è una argomentazione molto debole.
Una impostazione del genere va
a tutto vantaggio del premier in carica, perché il catastrofismo degli
avversari della riforma non ha argomenti che possano facilmente far
breccia nell’opinione pubblica. Difficile che questa si animi in difesa
del recupero delle provincie o del Cnel, oppure contro la limitazione
dei poteri delle regioni. L’unica vera questione su cui si fa leva è la
tesi per cui il nuovo Senato priverebbe di bilanciamenti il controllo
sull’azione del governo e di spazi di scelta autonoma l’elettorato. Si
tratta però anche qui di argomenti deboli, perché questa dialettica
virtuosa fra Camera e Senato s’è vista poco, e quanto ad elezioni in cui
gli elettori potevano più dei partiti nella determinazione dei
candidati vincenti c’è scarsa traccia.
Renzi non avrà dunque
difficoltà a spingere per una concentrazione della tematica sulla
questione del pro o contro la sua politica, visto che alla fine questo
sarà il terreno su cui saranno costrette a muoversi le sue opposizioni,
sia perché i temi più propriamente tecnici da loro agitati sono poco
mobilitanti (e poco convincenti), sia perché solo l’ostilità alla svolta
politica del renzismo può tenere insieme un fronte che va dall’estrema
destra all’estrema sinistra e che definire “variegato” è un eufemismo.
Ovviamente
questa impostazione non è positiva. Essa infatti porta ad esiti che non
sono propriamente augurabili: se vincerà il duello Renzi, gli si darà
un via libera assoluto per una politica che non è priva di fragilità e
che avrebbe bisogno di essere riconsiderata in alcuni punti chiave; se
vincerà il fronte/ammucchiata dei suoi avversari, si consegnerà il paese
ad un vuoto di potere che non è augurabile, visto che questa
opposizione non ha alcun progetto di alternativa politica concretamente
attuabile.
Oggi gli avversari della riforma lamentano che essa sia
nata da una iniziativa del governo e non da un confronto trasversale
con tutte le componenti politiche. Purtroppo è il classico caso di chi
piange sul latte versato. Infatti nel lunghissimo iter che ha portato
all’esito attuale non si è mai vista da parte di quelli che oggi fanno
opposizione una volontà costruttiva di giungere ad una rielaborazione
dei punti deboli della nostra Carta fondandosi su una capacità di
convergenza attorno a punti comuni. Se volessimo fare paralleli storici,
non c’è stata quella convergenza di alcune grandi ideologie che si è
registrata nella Costituente del 1946-47: ma anche allora quella
convergenza ci fu solo sulla prima parte della Carta (che ora non viene
toccata), mentre sulla seconda le contrapposizioni rinacquero già allora
e portarono alle soluzioni di compromesso che oggi costituiscono un
problema. Nel caso attuale siamo piuttosto in presenza di una dinamica
parzialmente simile alla riforma costituzionale promossa da de Gaulle
nel 1958: anche quella di origine governativa, anche quella incentrata
non sui grandi principi (che rimasero quelli di sempre), ma sulla
riforma della distribuzione dei poteri dello stato. Anche quella, se
volessimo spingerci, accusata di essere un colpo di stato, ma che ha
retto a lungo portando poi al potere anche quel Mitterrand che allora
l’aveva accusato appunto di uccidere da democrazia.
Difficile
anche sostenere che di una riforma della nostra Carta non si sentisse il
bisogno. È stato sostenuto anche da persone che si pensavano un po’ più
preparate sul tema, ma non solo di revisione di vari istituti si è
iniziato a parlare sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, ci sono
state tre commissioni bicamerali per studiarne la riforma senza che in
nessuno di quei casi si sia gridato allo scandalo.
In realtà il
problema che dovrebbe preoccupare è duplice. Il primo, importantissimo, è
il danno che deriverà al paese da lunghi mesi di zuffa politica in
vista della competizione referendaria, oscurando ogni decisione da
prendere su terreni ancora molto difficili e scottanti: politica
economica, politica estera, completamento e soprattutto messa a regime
delle riforme. Il secondo, a suo modo da non sottovalutare, è
l’inopportunità di “portare sugli altari” la riforma costituzionale
attuale, che ha punti di debolezza, ma che soprattutto necessiterà di
essere messa a regime nella prassi senza inutili ideologismi: pensiamo
alla revisione del rapporto centralismo/regionalismo, al tema della
messa in funzione del nuovo Senato con relativa legge elettorale.
Un
pensiero responsabile su queste prove sarebbe più opportuno della
ricerca dello scontro finale fra quel tanto di innovazione che, con
tutti i suoi indubitabili limiti, si affaccia all’orizzonte e la difesa
del buon (?) tempo antico.