Repubblica 14.1.16
Se Bruxelles processa la Polonia
di Andrea Bonanni
IN
EUROPA scoppia il caso Polonia. Ed è la prova generale della resa dei
conti con l’ondata populista che minaccia di travolgere le capitali
dell’Unione. La Commissione europea ha avviato una procedura contro il
governo ultraconservatore di Varsavia, al potere da fine ottobre.
UNA
PROCEDURA per constatare se abbia messo in opera «violazioni sistemiche
dello stato di diritto». È una decisione senza precedenti, basata su
una nuova procedura per la tutela dello Stato di diritto varata nel
2014, quando la minaccia sembrava venire dal governo ungherese di Viktor
Orban, e finora mai applicata.
Nel mirino di Bruxelles ci sono
gli attacchi del governo, guidato dal partito “Legge e Giustizia” (PiS),
contro la Corte costituzionale polacca, di cui non vengono eseguite le
sentenze, e contro la televisione pubblica, i cui dirigenti sono stati
defenestrati in blocco e sostituiti con esponenti politici della
maggioranza nominati direttamente dal ministero del Tesoro.
La
procedura per la tutela dello stato di diritto prevede tre fasi. La
prima, avviata ieri, è una fase di indagine e di raccolta di
informazioni, che la Polonia dovrà fornire alla Commissione. Se, al
termine dell’inchiesta, Bruxelles dovesse constatare una «minaccia
sistemica dello Stato di diritto », si apre la seconda fase, che è
quella delle raccomandazioni. In essa la Commissione avanza proposte per
correggere le violazioni del sistema democratico in accordo con il
governo interessato. Se neppure questa seconda fase dovesse dare
risultati, si passerebbe alla terza fase, quella delle sanzioni, con
l’invocazione dell’articolo 7 dei Trattati che scatta in occasione di
«una seria e persistente violazione » delle norme democratiche. La
Polonia potrebbe essere privata del diritto di voto in Consiglio e si
vedrebbe così di fatto congelare la sua appartenenza alla Ue.
Naturalmente si tratta di una ipotesi estrema e praticamente impossibile
da mettere in atto. Le sanzioni, infatti, devono essere decise
all’unanimità dagli altri stati membri della Ue. E il governo ungherese
di Orban ha già fatto sapere che non accetterebbe mai di votare contro i
suoi alleati polacchi di estrema destra.
Ma proprio la natura
estrema, e difficilmente applicabile, delle sanzioni previste dai
Trattati è stata la ragione per cui due anni fa la Ue si è dotata di
questa nuova procedura. Essa dà alla Commissione un ruolo di “guardiano
politico” della ortodossia democratica di ogni governo e consente di
mettere lo stato membro interessato sotto una fortissima pressione
mediatica e diplomatica, senza dover necessariamente ricorrere all’arma
atomica della sospensione del diritto di voto.
Il solo fatto che
un governo europeo venga chiamato a rispondere delle sue credenziali
democratiche di fronte a Commissione, Parlamento e Consiglio costituisce
un formidabile colpo alla sua legittimità politica. Alla prossima
sessione plenaria del Parlamento europeo, la premier polacca Beata
Szydlo è stata convocata per fronteggiare in aula le accuse rivolte al
suo governo. Non si preannuncia una discussione pacata. Inoltre la
procedura ha il vantaggio che, essendo improntata, almeno per le prima
due fasi, al «dialogo», consente di esercitare una serie di pressioni
per incidere indirettamente sulle scelte politiche, passate e future,
del governo in questione.
Infine, un Paese che si trovi sul banco
degli imputati di un processo tanto scomodo e clamoroso finisce
inevitabilmente per essere penalizzato anche in altri modi meno diretti.
Da quando PiS è al potere, la moneta polacca si è svalutata sull’euro e
la Borsa di Varsavia ha perso il 16 per cento, classificandosi maglia
nera in Europa. La cancelliera Merkel, irritata per le posizioni ultra
populiste di polacchi e ungheresi sulla questione dei profughi, ha già
ventilato l’ipotesi di sanzionare questi governi tagliando i fondi
europei loro destinati. Senza contare che, quando si è deciso la
redistribuzione dei rifugiati, lo si è fatto con una decisione a
maggioranza, imponendo la volontà comune ai riottosi Paesi dell’Est.
Ma
la decisione presa ieri dal collegio dei Commissari ha una portata
politica che va ben al di là del caso polacco. Essa segna la volontà
delle autorità comunitarie di fissare una serie di paletti contro il
dilagare dell’ondata populista che sta investendo il continente. Il
messaggio sostanziale che arriva da Bruxelles è che, al di là delle
disquisizioni giuridiche, non si può stare in Europa senza condividerne i
valori fondamentali di solidarietà, tolleranza, libertà, rispetto delle
minoranze e dei diritti di tutti. E, se non si rispettano i valori
fondamentali, necessariamente si finisce per intaccare il delicato
sistema di «checks and balances» che garantisce le nostre democrazie
evolute. Lungi dall’essere un organismo burocratico, come vorrebbero i
suoi detrattori, la Commissione ha compiuto un gesto altamente politico
in alleanza con il Parlamento europeo che le ha votato la fiducia. Ora
tocca ai governi, e in primo luogo a quelli che esibiscono impeccabili
credenziali democratiche, raccogliere la sfida della guerra al
populismo.