Repubblica 12.1.16
Il punto debole dell’Europa
L’Unione è
rimasta una non-Unione: non un governo comune, non una moneta uguale
per tutti, non una politica estera né un esercito
di Massimo L. Salvadori
AVVENIMENTI
recenti e in corso confermano più che mai che l’Unione Europea, tale
solo di nome, in realtà è una debole Confederazione, che lotta ogni
giorno con alterni successi, per lo più parziali, e insuccessi
nell’affrontare i problemi che urgono all’ordine del giorno. È
fisiologia che in una comunità di Stati giunta ad abbracciarne 28
emergano punti di vista e interessi diversi e ci si confronti con vivace
dialettica sulle strategie da seguire; ma è patologia che ne derivino
una dopo l’altra contrapposizioni che trovano mediazioni abborracciate o
non le trovano per niente.
Il punto più basso lo si è
probabilmente toccato con la seconda guerra del Golfo, che ebbe
l’effetto di spaccare letteralmente l’Unione in due campi contrapposti.
Nei tempi più vicini si è assistito alle divaricazioni sulle politiche
da seguire in relazione agli effetti disastrosi causati dalla crisi
economica iniziata nel 2008, alla questione ucraina, alle sanzioni alla
Russia, all’eterno dramma israelo-palestinese, al dissesto greco,
all’ingresso della Turchia nell’Unione; e si potrebbe continuare.
Ora
siamo allo spettacolo offerto dalle misure da prendere di fronte alla
tragedia costituita dalle ondate di immigrazione. Alcuni Stati attuano
con più o meno generosità programmi di accoglienza, altri si chiudono
con una ostilità che si tinge di intolleranza razzistica e identitaria.
L’ungherese Viktor Orbán ha fatto elevare il suo muro contro gli
immigrati. La Danimarca discute di una legge che prevede di spogliarli
di danaro e di gioielli in cambio delle spese per dare loro un qualche
tetto: un proposito che resterà nella memoria. I disaccordi tra i Paesi
in tema di ripartizione delle “quote” degli immigrati — con chi ne
accoglie molti, chi pochi e chi intende chiudere le porte — e la messa
in discussione degli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle
persone, già in parte violati, mostrano anch’essi come l’unità formale
celi la disunità sostanziale. Disunità della quale è segno pesante la
discussione aperta sull’uscita o meno dall’Unione della Gran Bretagna,
il cui premier — invece di assumersi la responsabilità di un indirizzo
politico — lascia i suoi liberi di compiere una “scelta di coscienza”.
Un
insieme di miserie che minaccia di provocare cumuli di macerie, in una
Europa nella quale da un lato i Kaczynski e gli Orbán vanno stringendo
il loro nero patto reazionario e dall’altro vigoreggiano i movimenti
sociali e i partiti politici che propagandano come una rinascita il
dissolvimento dell’Unione, il consenso popolare alla quale viene eroso
in misura via via maggiore.
Occorre a questo punto domandarsi
quale sia la radice profonda del virus che mina la costruzione politica e
istituzionale dell’Europa. Ritengo non sia improprio partire da un
errore strategico di fondo, che si sconta di continuo: l’ingresso nel
1975 nella Comunità della Gran Bretagna, la cui linea è stata
costantemente ispirata a sabotare — questa la verità — ogni passo inteso
a costituire un governo politico unitario del continente. Dopo di
allora si è proceduto all’allargamento del numero di Stati — dilatatosi
dopo la dissoluzione dell’impero sovietico cedendo all’impulso a
costruire ad Oriente una barriera nei confronti della Russia — senza che
vi fosse un nucleo sufficientemente forte in grado di imprimere
all’Unione lo slancio necessario per procedere verso la federazione.
Così
l’Unione è rimasta una non-Unione: non un governo comune, non una
costituzione comune, non una moneta per tutti comune, non una Banca
Centrale come la Federal Reserve americana, non una politica estera
sottratta agli interessi particolari dei vari membri, non un esercito
comune. Qui la differenza con le vere unioni di Stati come gli Usa, la
Federazione russa, l’Unione indiana, il Messico, il Brasile, le quali
hanno costruito le loro istituzioni senza dovere fare i conti con Stati
quali erano e sono quelli europei, il cui peso schiacciante non ha
cessato e non cessa di gravare sulle istituzioni europee. Si tratta di
Stati vecchi dalle consolidate radici, con differenti tradizioni,
culture, costumi, mentalità, livelli non omogenei di sviluppo economico e
sociale: fattori sufficientemente profondi e strutturati da avere
impedito all’Unione Europea di nascere “giovane” e non a sua volta
“vecchia”. Le grandi innovazioni politiche e istituzionali sono sempre
sorte dalla determinazione e dalla capacità di “liberarsi” dal peso
della storia. Non, naturalmente, facendo tabula rasa del passato: gli
esperimenti in tal senso compiuti specie nel Novecento non hanno
lasciato che terra bruciata. Liberarsi vuol dire andare oltre: anche,
certo, conservare, ma impedire alla conservazione di paralizzare
l’innovazione.
È questa la prova che la nostra Unione — in preda
agli ondeggiamenti, alle divergenze, all’indecisione, alle paure,
incapace di superare la sua condizione di creatura nata fragile che non
riesce a lasciarsi alle spalle un’adolescenza che si prolunga troppo — è
chiamata a superare.
Siamo al punto in cui l’Unione ha bisogno di
una vera e propria rifondazione, anzitutto nello spirito dei suoi
governanti e forse ancora più dei cittadini chiamati a decidere se
aspirano a diventare propriamente europei oppure a regredire nel chiuso
delle cittadinanze dei loro singoli Stati. Esistono le energie per un
simile compito?