martedì 12 gennaio 2016

Repubblica 12.1.16
Quei nodi irrisolti del nuovo senato
di Andrea Manzella

È DIFFICILE capire cosa sia il “nuovo” Senato, giunto agli ultimi passaggi parlamentari. Si chiama ancora Senato della Repubblica. Ma non rappresenta più la Nazione. Neppure quando dovrà approvare leggi costituzionali e nominare due giudici costituzionali e concorrere alla elezione del capo dello Stato (che della “unità nazionale” è, appunto, il rappresentante). Né i nuovi senatori rappresenteranno la Nazione quando procederanno ad inchieste parlamentari «con gli stessi poteri dell’Autorità giudiziaria ».
I senatori rappresenteranno le «istituzioni territoriali». Ma, senza mandato vincolante, non si comprende quale tipo di rappresentanza potranno esercitare. Non rispondono né ai governi regionali né ai consigli regionali che li eleggono «in conformità delle scelte degli elettori» e neppure allo stesso corpo elettorale le cui scelte dovranno appunto essere “filtrate” dai Consigli regionali. Si sa solo che, esclusa per essi l’indennità parlamentare, saranno a libro-paga delle regioni. Cosa che può infastidire, come un conflitto di interesse istituzionale, quando il nuovo Senato dovrà — a maggioranza assoluta — “mettersi contro“ con una legge-clausola di supremazia, se «lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale».
Il Senato dovrà anche esercitare funzioni di “raccordo” tra lo Stato e i governi territoriali. Di questa inedita attività c’è però solo il nome: non i momenti, i luoghi, le procedure con cui questo ruolo dovrà svolgersi. Dovrà aggiungersi o sostituirsi alle attuali Conferenze Stato-regioni — enti locali? Consisterà di atti legislativi o di innovative convenzioni interistituzionali? Oggetto del “raccordo” saranno astratte normative o concretissime politiche pubbliche?
Queste indecise modalità di “raccordo” risultano ancora più moleste guardando ai rapporti con l’Unione europea. Sia per la difficoltà di assicurare la dovuta parità fra le due Camere nella sempre più strategica cooperazione interparlamentare. Sia perché non si può ignorare che le politiche dell’Unione hanno «impatto diretto ma differenziato sui territori» e che qui si giocheranno un bel po’ delle ragioni di essere del nuovo Senato.
La riforma, si dice ancora, elimina la legislazione concorrente tra Stato e regioni: fonte di litigi nel condominio legislativo. Ma chi dà uno sguardo alle regole di questa produzione “esclusiva” di leggi statali, si accorge che la competenza centrale è spesso bloccata, da formule restrittive, a «disposizioni generali e comuni », a «principi», a norme «strategiche». Formule che logicamente rimandano ad una normazione “altra”: specifica, attuativa, non strategica. Siamo punto e daccapo, insomma, nel rapporto tra leggi statali — leggi regionali. Con la riforma, però, la conflittualità potrà assumere natura politica nel dialogo tra Camera e Senato, anziché giuridica davanti alla Corte costituzionale. Cosa giusta: se al Senato, per “impugnare” tali leggi della Camera, non fossero concessi appena 10 giorni. Entro questo termine iugulatorio, devono essere raccolte le firme di un terzo dei senatori (34, sparsi in tutta Italia, causa part-time) per poter avere il diritto di parere (non di decisione) in merito.
Questi sono solo alcuni dei dubbi che suscita il progetto di nuovo Senato, ora «in vista del traguardo». Dubbi che oltre 60 costituzionalisti auditi nel procedimento, non sono riusciti ad evitare, malgrado ogni loro aiuto.
La riforma riporta però anche due grandi successi: l’eliminazione del doppio voto di fiducia sul governo (che aveva reso insopportabile la instabilità connessa all’attuale bicameralismo); la riduzione, sia pure monocamerale, di più di duecento parlamentari.
Vi è da chiedersi se questo “parecchio”, guadagnato nell’assetto del sistema, non si sarebbe potuto ugualmente ottenere senza l’”inutile strage” politica e costituzionale che ha marcato questa riforma. È stato chiaro, infatti, ad un certo punto, che alla rottamazione della doppia fiducia e al drastico taglio del numero dei senatori non si opponeva più nessuno. Restava certo, sola, come un macigno, la questione dell’elezione diretta dei senatori. Una questione che, date le altissime funzioni costituzionali conservate comunque al Senato, appariva (e appare) come una elementare condizione di legittimazione democratica. Il rifiuto di essa è stato accanito quanto ingiustificato.
E il rammarico è grande. Anche perché questa scelta dei senatori, come “minestra riscaldata”, da parte degli organismi regionali, anziché con investitura diretta dalle comunità territoriali, colpisce una speranza di politica rappresentata dall’attuale governo e dal suo leader. Una speranza di primato e di autonomia della politica: non certo fondata su concrezioni di potere locale, talora minate da corruttela, bensì sul consenso diretto dei cittadini e sul risveglio di quelle “forze vive” regionali di cui si parlò all’Assemblea Costituente.
Non resta allora che affidare al “giudizio di un dio” referendario, la sorte di questa accidentata riforma: senza perseverare però nell’errore di legare ad essa le sorti del governo e del Paese, nel “mondo fuori controllo” che ci sta intorno e dinanzi.