martedì 12 gennaio 2016

Corriere 12.1.16
Il pericolo di una campagna che delegittimi le istituzioni
La prospettiva Se il dibattito in vista del voto popolare subirà una deriva demagogica le riforme ne saranno indebolite invece che rafforzate
di Massimo Franco

Il voto di ieri sulle riforme era scontato.
E forse sarà confermato al Senato già la prossima settimana: seppure con numeri meno netti. Ma tutti sanno che non contano solo i «sì» del Parlamento.
A Matteo Renzi preme soprattutto il «sì» del popolo nel referendum chiamato a vidimare dopo l’estate la sua strategia istituzionale.
Il contenuto appare quasi secondario. A essere in palio è l’idea del cambiamento in sé.
Il presidente del Consiglio si presenta come spartiacque tra passato e futuro, tra «vecchio» e «nuovo»: una parola d’ordine sulla quale ritiene di poter scommettere, e con qualche ragione.
Anche perché gli avversari stanno affrontando l’appuntamento con un atteggiamento speculare. Non entrano nel merito delle riforme. Si limitano a evocare il «no» per «mandare a casa Renzi e il governo». Eppure, l’operazione referendaria racchiude rischi di sistema ben visibili. Non è tanto il pericolo di una politicizzazione, inevitabile nel momento in cui Renzi dice che in caso di bocciatura se ne andrà. L’insidia più evidente, ancora poco notata, è che il referendum non legittimi le istituzioni forgiate dalla riforma; e diventi invece una gigantesca campagna di discredito della politica.
La prospettiva di una deriva polemica e demagogica già si intravede. La narrativa del Pd è che sta svuotando un bicameralismo mai servito a molto, insistendo sui risparmi che l’operazione comporta. Il premier lo fa perché vuole ottenere per via referendaria i voti che non ha ancora ottenuto in Parlamento. Non è deputato, ed è arrivato a Palazzo Chigi grazie alla vittoria dentro il Pd e all’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano, come peraltro i suoi predecessori Mario Monti ed Enrico Letta. E il trionfo alle Europee del 2014 non basta più. Ma le incognite che i prossimi mesi possono imprimere alla sua traiettoria sono molte.
È vero che oggi il M5S, nemico del Pd, è alle prese con la vergogna dei voti della camorra presi a Quarto, in Campania: una vicenda dalla quale sta uscendo ammaccato e diviso, col vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, pronto a invocare una linea dura rispetto agli «innocentisti» del suo partito. Quanto al centrodestra, parla di «regime renziano» e segue le parole d’ordine xenofobe della Lega. Ma il governo non sta tranquillo comunque.
Teme i contraccolpi dello scandalo delle quattro banche locali salvate; e l’impatto sul ruolo del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi. Il coinvolgimento del padre, vicepresidente di Banca Etruria, è una zavorra oggettiva per Renzi. In più, non è chiaro che dirà l’Ue sulle misure chieste dall’Italia in nome della «flessibilità». E a giugno ci saranno le elezioni amministrative, con città come Roma e Napoli in bilico. Insomma, il referendum non sarà una marcia trionfale. Potrebbe perfino rivelarsi una salita impervia.