Repubblica 11.1.16
Il racconto di Cocteau “Questa città è poesia”
La mia Parigi che odio e amo a cuore aperto
di Jean Cocteau
IL
LIBRO Questo testo è un estratto di Parigi ( Piemme, trad. di Sergio
Baratto pagg. 96, euro 14,90) di Jean Cocteau ( foto, 1889- 1963)
Parigi
è una grande città fatta di piccole città e villaggi che persino il
parigino ignora e che gli stranieri conoscono meglio di noi. Era uno
straniero a guidarmi nella mia stessa città, ai tempi in cui giravo
l’”Orfeo” e mi serviva inventare una città sconosciuta, avvicinando
sulla scena quartieri diversi di Parigi, lontani nella realtà gli uni
dagli altri. Mi è capitato spesso di affermare che non potevo vivere a
Parigi, e ogni volta ci ritrovavo i miei vecchi amori. È così che si ama
e si odia: con fuoco. “A cuore aperto” — è a cuore aperto che bisogna
amare la propria città — accettare tutto ciò che questo comporta in
battibecchi amorosi. Parigi è un’agorà pericolosa, uno spazio pubblico
in cui artisti di tutte le nazioni sperimentano insieme quel
patriottismo internazionale dell’Arte che è permaloso e feroce quanto il
patriottismo di nascita. Ci tenevo a dirlo e a sottoscriverlo con il
sangue dei poeti, che si tramuta rapidamente in inchiostro.
Come i
poeti, Parigi è di tutte le città del mondo la più vistosa e la più
invisibile. È da questo strano contrasto che nascono i peggiori
malintesi.
Ci si può immaginare quale abisso si apra tra questa
irritante visibilità del poeta e l’invisibilità profonda che egli porta
con sé sotto un’andatura che attira lo sguardo. Si potrebbe paragonare
il poeta a un acrobata che attraversa la morte su un filo, filo che
sembrerebbe tracciato con il gesso sulla terraferma. Per il pubblico
distratto e che non intuisce il vuoto sotto la corda, egli rimane
semplicemente un pazzo che regge un ombrello e cammina nella maniera più
affettata e meno spontanea. Quel procedere eccita il riso. La nostra
città, incredibilmente elaborata, stratificata, ingarbugliata,
sovrapposta, fatta di ombre e di penombre, deve apparire all’osservatore
come uno spazio pubblico ciarliero e frivolo. Se non possiede le chiavi
che aprono porte e botole, se la facoltà da diavolo zoppo di sollevare i
tetti delle case resta per lui lettera morta, questo osservatore si
tuffa nei libri degli esperti, vera e propria guida Michelin del nostro
labirinto. Balzac, Hugo, Eugène Sue, Rocambole e Fantômas ci raccontano i
retroscena e i sottopalchi del teatro. Sembra proprio una di quelle
piovre cangianti che strangolano o succhiano il sangue delle loro
vittime, il che non impedisce loro, qualora le si guardi dietro il vetro
di un acquario, di arrossire come fanciulle.
Per un giovane che,
novello Rastignac, osservi Parigi dall’alto di Montmartre e si
riproponga di soverchiare le sue mille insidie, la conoscenza di queste
guide romanzesche è una necessità. Forse all’inizio sorriderà e penserà
che la capitale moderna non offra più lo stesso caos di sordide
meraviglie e trappole fiorite. Non appena crederà di aver raggiunto una
meta, cadrà in preda ai miraggi. La meta si allontanerà, muterà forma;
laddove la sua mano credeva di afferrare l’oggetto desiderato troverà il
vuoto e, come nel gioco dell’oca, dovrà ripartire daccapo.
È così
che il destino procede ed è così che la nostra singolare città vi
collabora. È necessaria una lunga serie di insuccessi, per vincere lo
scoraggiamento e comprendere che la fortuna è mossa da meccanismi
complessi. Alle forze visibili, agli aiuti ufficiali, si sovrappongono
delle forze occulte e quegli incalcolabili piccoli aiuti tenebrosi senza
i quali anche un uomo che si creda in posizione sicura non poggerà in
effetti che su dei fantasmi. Oso dire che la massoneria non era —
persino in ciò che essa possiede di praticamente indistruttibile — che
una branca piuttosto insignificante delle attività segrete a cui anche
la minima sorte parigina è sottomessa.
Certo, può succedere che la
purezza e l’ingenuità trionfino e procedano in linea retta attraverso i
meandri. Mettiamolo sul conto di una distrazione del diavolo. Perché
mai certe anime non dovrebbero beneficiare di quel prodigio capace di
lasciare intatta una tenda di mussola sulla facciata di un edificio
distrutto dal fuoco? Ma compiangiamo il vanesio che s’immagina che le
cose siano più facili da ottenere di quanto si potrebbe credere
inizialmente.
Parigi inganna le anime che la conoscono male. La
cosa grave è che non inganna con i sorrisi. Parigi non è affatto
gentile. Parigi è aggressiva. Il primo impatto provoca un rilassamento. È
allora che il vanesio reputa vinta la battaglia. Un’ombra di successo
nasconde un interminabile periodo vuoto. Coloro che vi sostenevano si
dileguano e persino il vostro angelo custode vi passa accanto senza
riconoscervi. Sventura a colui che insiste. Il successo parigino esige
una pazienza incrollabile. Un bel giorno, il nodo si scioglie e, se
stavate spiando la porta, la vostra fortuna svanita rientrerà dalla
finestra. E non crediate che sia solo il caso a dirigere le operazioni.
Al contrario, la vostra prima mossa, la minima indiscrezione, la minima
vanteria, le favole pericolose suscitate da una frase imprudente,
siatene certi, metteranno in moto tutta una macchina tanto più nefasta
quanto più distanti gli uni dagli altri ruotano gli ingranaggi che la
compongono. Non vedrete mai la macchina che lavora per nuocervi. Vi
mancherà sempre qualcuna delle trame che si svolgono nell’ombra. Una
parola che avete detto o che vi viene attribuita basterà per innalzare
l’edificio. Ecco perché è importante ammirare certe glorie, certi
talenti sbalorditivi. Essi scaturiscono da una tale moltitudine di
coincidenze fortunate, da una serie così innumerevole di giocate
azzardose, da costruzioni così aeree che — quand’anche non apparissero
come il frutto di una giustizia — bisognerebbe quanto meno salutare in
loro degli autentici capolavori del destino.
Parigi possiede uno
stomaco da struzzo. Digerisce tutto. Non assimila niente. È questo che
le conferisce quell’aria di debolezza dietro cui si cela una capacità di
resistenza senza limiti. Il suo rifiuto di obbedire alle regole —
oserei dire la sua anarchia — le impedisce di disindividualizzarsi e di
affidarsi a un capo. Ciascuno vi si crede capo, e di una direttiva non
accetta che il simbolo. Non appena il parigino viene ostacolato nei suoi
agi, eccolo imbrogliare e brigare di nascosto per non subire il
disinganno del vicino.
Questo dramma complesso esige un numero
così grande di attori e comparse, di atti che si aggrovigliano e si
sovrappongono l’uno con l’altro, di spettatori e macchine, di risate e
lacrime, che nessun regista è in grado di reggerne i fili. L’elettricità
senza pari, la fosforescenza della putrefazione che si sprigiona da
tutto questo disordine e da tutti questi contrasti che affaticano
l’immaginazione, altro non è che poesia.
© 2013, Éditions Grasset et Fasquelle / © 2016 — Edizioni Piemme Spa, Milano