Repubblica 10.1.16
I tabù del mondo
Siamo tutti Edipo l’eroe maledetto della conoscenza
Il protagonista della tragedia di Sofocle è diventato la figura emblematica dell’uomo vittima del suo destino
Condannato senza colpa a infrangere i due divieti fondativi: non uccidere tuo padre, non giacere con tua madre
Ma secondo Lacan più che l’incesto il re di Tebe incarna l’eccessivo desiderio di verità che è in noi
di Massimo Recalcati
In
un primo tempo è oggetto passivo di una sentenza inappellabile, poi il
suo ruolo sembra cambiare: diventa un sovrano, un salvatore Ma non si
sfugge al passato
Per definire la vita umana Lacan ha
più volte evocato la leggenda antica dello schiavo-messaggero che
portava iscritto sulla propria nuca rasata il messaggio che avrebbe
dovuto recapitare senza poterlo leggere. Tutti noi portiamo sulle nostre
nuche le sentenze, le maledizioni, gli auspici, le speranze, i
desideri, le gioie delle nostre madri e dei nostri padri senza mai
poterle leggere direttamente. Ciascuno porta scritto sulla propria nuca
il destino che l’Altro ci ha assegnato senza poterlo decifrare. La
nostra vita è allora solo l’esito di una necessità inesorabile? Ecco
arrivare la sagoma inquietante di Edipo, il figlio innocente che il
destino ha voluto colpevole. L’oracolo consultato al momento della sua
nascita legge la sua nuca: infrangerà i tabù più grandi, i tabù dei
tabù: ucciderà suo padre e si unirà sessualmente con sua madre. È questo
il suo dramma: la fine della sua vita coincide con il suo inizio senza
alcuna possibilità di movimento.
Conosciamo la sua storia che per
Freud è la nostra storia: l’oracolo sentenzia al padre Laio il destino
disgraziato di suo figlio Edipo. Per evitare che la profezia si compia,
il re consegna il figlio a un pastore con la raccomandazione spietata di
ucciderlo. Abbandono e infanticidio sono alle radici del dramma del
figlio Edipo. Nel racconto di Sofocle il primo ad infrangere la Legge
non è il figlio ma il padre: Laio vuole fare uccidere il figlio perché
altrimenti ne sarebbe ucciso. Figlicidio e parricidio si corrispondono
drammaticamente come due facce della stessa medaglia. Tutto, proprio
tutto, è già scritto per Edipo, sin dall’inizio. Il pastore mosso a
pietà affida il bimbo a un altro pastore che a sua volta lo affida a una
coppia regale della città di Corinto che non poteva avere figli. Edipo
scopre il suo destino consultando il Dio Apollo e proprio per evitare
che si compia decide di allontanarsi dalla sua città. Lungo la strada
incontra però, senza riconoscerlo, il proprio padre e lo uccide in uno
scontro mortale. In seguito risolverà l’enigma della Sfinge e diventerà
il re di Tebe, sposo della sposa di Laio, di sua madre Giocasta. La
tragedia di Edipo si condensa nella sua impossibilità a sfuggire al
proprio destino: tutto era già scritto e più Edipo rifiuta la scrittura
del proprio destino, più resta impigliato.
In un primo tempo Edipo
è vittima passiva della sentenza dell’Altro che porta tatuata sulla sua
nuca: è un figlio abbandonato e adottato. In un secondo tempo della sua
vita diviene un eroe, un salvatore; libera Tebe risolvendo il mistero
della Sfinge. Sembra aver modificato il suo destino: diventa un re che
assicura prosperità al suo popolo e alla sua famiglia. Ma l’ombra tetra
dell’epidemia cade sulla sua città a causa di una colpa oscura. Edipo
vuole sapere la causa del flagello. Attiva con decisione un’inchiesta
per scoprire il colpevole ma anche in questo caso volendo sfuggire al
proprio destino lo incontra inesorabilmente. La sua inchiesta trascura
di indagare se stesso; è tutta rivolta verso l’esterno. È il contrario
di Socrate; se questi sa di non sapere, Edipo non sa di sapere. La sua
determinatezza lo allontana, paradossalmente, dalla verità. Il nucleo
della tragedia, scrive Ricoeur, «non è il problema del sesso, ma quello
della luce». Mentre Edipo pensa di vedere, è cieco; è Tiresia, il
veggente cieco, che invece può vedere rivelandogli la verità più
scabrosa: «Sei tu l’impuro che infetta questa terra… tu cerchi
l’assassino di Laio. L’assassino sei tu: questo ti dico… viene da te il
tuo Male...».
Edipo preferisce la verità al suo bene e a quello di
chi gli sta vicino e lo ama («tutto questo bene mi ha seccato!»). Edipo
non patteggia, non media, non ascolta i consigli di Tiresia e di
Giocasta, non è attaccato alla propria identità, alla sicurezza delle
sue proprietà. La verità, per lui, conta di più di ogni altra cosa. La
sua volontà di sapere assume la forma di una hybris radicale che sfida
ogni tabù. E questa verità, alla fine, sarà accecante, violenta,
traumatica. L’accecamento a cui si sottopone dopo la rivelazione di
Tiresia denuncia la sua colpa irrimediabile: «Luce di questo giorno, tu
devi essere l’ultima mia luce. Ecco chi sono: nato da chi non mi doveva
generare. Vissuto accanto a chi non mi doveva vivere accanto. Chi non
dovevo uccidere, io l’ho ucciso».
Edipo non ha il dono della
visione immediata della verità propria dell’oracolo. Egli è solo un
uomo. La sua ricerca della verità — come quella di tutti gli uomini — è
un cammino necessariamente lento e faticoso. Egli paga la colpa del suo
desiderio di sapere che non si frena di fronte a nessun limite. Se Edipo
non avesse voluto sapere la verità della sua origine sarebbe rimasto
padre, Re e marito. Egli non accetta la rimozione, la maschera, non si
accontenta di quello che sa; vuole interrompere l’omertà borghese
dell’Io, vuole andare sino in fondo.
È la forza tragica di questa
figura maledetta. Edipo esce dall’oscurità del non-sapere potendo
finalmente vedere quello che ha compiuto. La sua identità di Re, padre e
liberatore si ribalta in quella di figlio parricida e incestuoso,
destinato a vivere da reietto. È il punto su cui ha insistito, dopo
Freud, Lacan: la tragedia del parricidio e dell’incesto è, in realtà,
una tragedia della verità. Possiamo chiederci, con Edipo, quanta verità
può sopportare un uomo? Nel suo caso la rivelazione della verità
coincide con la realizzazione del suo destino; la sua innocenza diventa
la sua colpa; la verità non è soltanto luce che libera la visione, ma
può essere anche talmente insopportabile da rendere impossibile ogni
visione.