mercoledì 27 gennaio 2016

La Stampa 27.1.16
Per Renzi il modello Depretis
di Giovanni Sabbatucci

Basterà qualche ulteriore passo di avvicinamento alla maggioranza della pattuglia guidata da Verdini per cambiare durevolmente la configurazione del sistema politico italiano? Basterà una rassicurazione di Alfano sulla prevedibile lunga durata dell’alleanza fra il suo Nuovo centro-destra e il centro-sinistra a guida renziana per dare corpo al fantasma del «Partito della nazione» e cancellare le ultime tracce di bipolarismo sopravvissute alla crisi della seconda repubblica? Se lo chiedono con comprensibile inquietudine non solo i leader dei principali gruppi di opposizione (destra forza-leghista e Cinque stelle) che si sentono minacciati di erosione sul fronte dell’elettorato di centro, ma anche e soprattutto gli esponenti della minoranza Pd, che teme di perdere la sua identità restando nel partito o di vedersi relegata, in caso di scissione, nell’area della sinistra estrema.
A tutti Matteo Renzi potrebbe rispondere con le parole pronunciate dal suo antico predecessore Agostino Depretis, in un discorso tenuto a Stradella l’8 ottobre 1882: «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?». C’era, in queste parole, una buona dose di finta ingenuità. Si era alla vigilia delle prime elezioni a suffragio allargato, che ammettevano alle urne, peraltro con prudente gradualità, pezzi di società sino allora esclusi dal voto. E Depretis, leader della Sinistra al governo, cercava di giustificare agli occhi dei suoi elettori l’accordo che stava allacciando con la Destra guidata da Marco Minghetti, proprio per limitare le temute conseguenze dirompenti della riforma sugli equilibri parlamentari. L’accordo mirava dunque a stabilizzare il sistema in chiave moderata, più che a portare nuovi consensi alla Sinistra. I moderati non diventarono progressisti (si accentuò semmai il processo inverso). Il sistema, imperniato su un’unica grande maggioranza «costituzionale», si bloccò, negandosi ogni possibilità di ricambio fisiologico. E la benefica «trasformazione» dei partiti, evocata da Depretis come evoluzione positiva dello scenario politico, si mutò nel suo peggiorativo: il trasformismo, («brutta parola a più brutta cosa» secondo la sferzante definizione di Carducci), subito additato da intellettuali e politici di opposizione (in prima linea Francesco Crispi, che di lì a pochi anni sarebbe entrato nell’ultimo governo Depretis) come tomba di ogni genuino contrasto di idealità e di programmi, come fonte di ogni degenerazione e di ogni corruttela.
Dobbiamo allora paventare, tornando all’oggi, il possibile avvento di un nuovo e inamovibile «grande centro», o, per trovare un precedente più vicino, di una nuova Dc capace di restare ininterrottamente al governo per quasi mezzo secolo? Meglio andar piano con i parallelismi. Va ricordato innanzitutto che l’operazione politica lanciata da Depretis non era solo una manovra di potere. Aveva anche, o principalmente, lo scopo non ignobile di rafforzare le istituzioni di uno Stato ancora molto giovane e di proteggerle dalla minaccia delle forze extra-costituzionali, che non ne riconoscevano la legittimità. Oggi non abbiamo sovversivi «rossi» o papisti «neri» che premono ai cancelli della rappresentanza (chi poteva li ha già varcati da un pezzo). Ma non è del tutto fuori luogo interrogarsi sulle conseguenze che l’avvento al governo di leghisti, pentastellati e populisti assortiti potrebbe avere sulla nostra situazione finanziaria e sui nostri rapporti con l’Europa.
Insomma, la tendenza delle maggioranze parlamentari a far blocco al centro produce di norma l’effetto (negativo) di inibire l’alternanza. Ma può dipendere, almeno in parte, dall’inaffidabilità delle opposizioni. E questo non è un problema di Renzi o del Pd. Nel gioco della democrazia, dove vittorie e sconfitte si assegnano in base al conteggio dei voti, è già raro – Depretis insegna – che un leader respinga gli apporti esterni giudicati compromettenti. Ma è ancora più difficile che si faccia carico dei problemi di chi, legittimamente, aspira a prenderne il posto.