La Stampa 27.1.16
Mario Botta
Nelle mie biblioteche i libri respirano
“Non
sono casseforti ermetiche, devono percepire i cambiamenti climatici”.
Parla l’archistar che interviene oggi a Venezia alla Scuola per librai:
così costruisco le cattedrali del sapere
intervista di Mario Baudino
È
noto che il termine biblioteca, nelle lingue occidentali, paga una sua
ambiguità: definisce sia una collezione di libri, sia l’edificio che li
contiene. In cinese (lo fa notare James P. Campell nel suo monumentale
La biblioteca. Una storia mondiale, Einaudi, scritto con Will Pryce), è
possibile invece distinguere. Non che sia un problema, dal punto di
vista dell’architettura. E Mario Botta, grande architetto di chiese e di
biblioteche, tutte le volte che ha dovuto progettarne una - ne ha
costruite o progettate una dozzina, dall’America alla Cina - ha tenuto
ben presente che si tratta di uno scrigno e di un luogo sacro. «Quando
entro in una biblioteca - ci dice dal suo studio di Lugano - mi sento
una formica».
A partire da domani sarà a Venezia per l’annuale
seminario della Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri, sull’isola
di San Giorgio. «Architettura e biblioteche» è il titolo della lezione
che tiene nella giornata inaugurale. Spiegherà ai partecipanti che
«accanto a una buona organizzazione funzionale la biblioteca richiede
un’immagine forte e riconoscibile in grado di distinguersi rispetto al
tessuto connettivo dell’intorno. La sua funzione di custodia e messa a
disposizione di un sapere che appartiene alla storia dell’umanità le
attribuisce un ruolo “sacrale” immediatamente percepibile».
La biblioteca come una cattedrale?
«Entrambe
comunicano un senso di sacro, e bisogna aggiungere che la biblioteca lo
fa in modo straordinario: noi ne conosciamo una minima parte, la parte
che ci resterà ignota è infinitamente più vasta rispetto a quella di cui
abbiamo esperienza. Ma c’è di più».
In quanto ad analogie?
«Certo.
Per esempio c’è quella con il teatro: è un luogo che io lettore devo
conquistare, o almeno guadagnare, pagando un biglietto, uscendo di casa.
Entro, sono per un attimo al buio, fino a che non si sprigiona una luce
particolare, e resto in attesa di qualcosa al di fuori della mia
quotidianità. Lo stesso accade tra i libri. Chi legge sogna. Le analogie
tra le strutture istituzionali che vanno al di là della semplice
fornitura di un servizio sono molto forti. La biblioteca deve essere
anche un luogo dove vivere, uno spazio di silenzio, di concentrazione e
magari di distrazione, di fantasticheria, per flâneur intellettuali...».
Un teatro della lettura?
«Sì,
perché mentre si legge si è attorniati dagli altri, e da altri saperi.
Pensi all’esperienza di sfogliare i giornali in una emeroteca. Sei
attorniato da cento altre riviste, che non riuscirai mai nemmeno ad
aprire eppure ti invitano, ti tentano, ti seducono».
Se questo è
vero, però, è perché stiamo parlando di un certo tipo di biblioteca.
Quella tradizionale, antica o moderna che sia, con scaffalature a
perdita d’occhio, colme di libri.
«Sì, sono per la biblioteca a
sala aperta. La ricchezza e l’emozione di fronte a essa è incomparabile
rispetto al sapere che sta nel computer. Ci fa scoprire il limite della
comunicazione virtuale. E ci aiuta a non dimenticare la bellezza della
carta stampata e della consistenza fisica».
Che non può essere sepolta nei sotterranei, come accade forse fatalmente negli edifici più moderni funzionali.
«Anzi,
deve essere esibita il più possibile. Una biblioteca che amo molto è
quella di Stoccolma progetta da Gunnar Asplund nel 1918: entri e ti
avvolge, circolare come il mondo».
E delle sue? Ce n’è qualcuna cui è particolarmente legato?
«Ne
ho fatte un po’ dovunque. Qui a Lugano, nel convento dei frati
cappuccini, ne ho realizzata una piccola e intima, che mi piace molto.
All’opposto amo quella, molto speciale, a Cologny, vicino a Ginevra,
nata come museo del libro, popolata dalle testimonianze sull’origine
dell’umanità raccolte negli anni 30 da Martin Bodmer. Ci sono tesori
inestimabili, i primi vangeli, manoscritti antichissimi, correzioni
autografe di Boccaccio, tutto ciò che ci parla delle origini della
cultura, dell’aspetto fisico del libro. Mi sono occupato di realizzare
uno spazio idoneo per esporre questi manoscritti, uno spazio dove i
libri “volano”».
Le piccole dimensioni sono un vantaggio?
«Non
necessariamente. Pensi alla nuova grande biblioteca di Alessandria
d’Egitto. Riesce a farci provare una forte emozione, non solo
architettonica. C’è intorno, dentro, un territorio di memoria,
condizione che vale per quelle antiche, ovviamente, e per quelle
modernissime».
Questo per quanto attiene ai significati, e
all’immaginario. Poi ci saranno anche trucchi del mestiere, protocolli,
regole. Una biblioteca non è un edificio come gli altri.
«E come
no. Ho capito una cosa molto importante da Giovanni Pozzi, il grande
filologo (e religioso) ticinese, ora scomparso. Mi diceva sempre che la
biblioteca - lui ci ha trascorso la vita - deve respirare; non è una
cassaforte ermetica, deve percepire i cambiamenti climatici. Di qui per
esempio l’ida di sostituire le vetrate con reti, per far passare l’aria.
Perché il libro viva secondo il clima dell’uomo».
In uno spazio aperto. Quello chiuso non la convince.
«La
carta va certamente protetta, ma non imprigionata. All’incontro di
Venezia voglio spiegare ai giovani librai che non sono affatto, in
quanto tali, “invecchiati” rispetto alle tecnologie di oggi».
Qualcuno
le chiederà magari se ritiene possibile costruire la mitica biblioteca
di Babele, quella di Borges, che a quanto pare, nonostante la
descrizione minutissima fornita dell’autore, non è realizzabile nella
pratica.
«In tal caso la risposta è che a me piace pensarla impossibile. Deve restare una bellissima utopia».