Corriere 27.1.16
Lo sforzo autolesionista di demolire la nostra lingua
di Adolfo Scotto di Luzio
Join
the Navy, «entra in marina». L’ invito non viene da Annapolis,
Maryland, dove ha sede la più importante accademia navale degli Stati
Uniti d’America. Più domesticamente, da Roma. Lo slogan compare sui
manifesti che in questi giorni annunciano nelle nostre città la nuova
campagna di reclutamento della Marina militare italiana. Dopo il «Be
cool and join the Navy» del 2015, qualcosa che in italiano suona come
«Fai il fico ed entra in marina», lo Stato maggiore insiste con un
giovanilismo di maniera che si pretende dinamico e internazionale ma
che, riferito a un’istituzione militare della Repubblica italiana, suona
alquanto privo di senso.
Non c’è dimensione pubblica del nostro
Paese, ormai, che non sia affidata a pubblicitari e creativi di ogni
risma per i quali l’uso dell’inglese è diventato una specie di tic
nervoso. Clamoroso è lo slogan inventato per Roma, RoMe & You,
«Roma, Io e Te», che ha finito per renderne irriconoscibile finanche il
nome. Un paradosso non da poco per chi, dovendo vendere un marchio, lo
confonde sotto un gioco grafico e linguistico buono, forse, per una
paninoteca dalle parti di Campo de’ Fiori.
Non fa eccezione a
questo andazzo sciatto e autolesionistico il ministero della Pubblica
istruzione. Da tempo nella scuola italiana circola un nuovo latinorum
che mescola alle vecchie formule della burocrazia un gergo monotonamente
ripetitivo degno di un call center. Basta prendere il piano della
scuola digitale del Miur e aprirlo a caso. È un succedersi di
Acceleration Camp , percorsi di accelerazione per stimolare lo spirito
di intrapresa nei giovani. Ci sono i Contamination Lab , luoghi di
contaminazione interdisciplinare. Le studentesse patiscono i confidence
gap , il pregiudizio di genere in ambito scientifico e tecnologico. Il
ministero risponde con «Girls in Tech & Science». Su questo
linguaggio c’è poco da dire, se non che è refrattario a qualsiasi
elaborazione intellettuale.
Ma che dire, invece, dello
obbligo
d’insegnare in lingua straniera una materia non linguistica imposto
nelle scuole superiori, in quinta? È il famigerato Clil, acronimo
inglese, che sta per apprendimento integrato di lingua e contenuto.
Nasce dalle escogitazioni multilinguistiche di un esperto di origini
australiane che fa base in Finlandia. Si prefigge il conseguimento di un
livello di estrema generalizzazione linguistica al di sopra delle
differenze «dialettali» fra cittadini europei. Un progetto di vasta
portata, per chi lo ha concepito; un’idea, invece, da pezzenti culturali
a ben vedere. Non si danno più ore alle lingue straniere. Né si
assumono insegnanti specialisti. Niente di tutto questo.
Si
sottraggono, invece, al dominio dell’italiano contenuti culturali
importanti e insieme si svilisce il valore di questi stessi contenuti,
riducendoli a mero supporto della lingua straniera. Soprattutto, se il
ministero presuppone negli insegnanti certificazioni linguistiche che di
fatto non posseggono, dà per scontato che gli studenti siano in grado
di prendere attivamente parte a lezioni in lingue che non padroneggiano.
Gli effetti semplificatori sui contenuti saranno, inevitabilmente,
disastrosi.
La lingua, tanto quella straniera che l’italiano, qui è
concepita come un mero strumento e non come un terreno sul quale
sorgono, nel tempo, pensieri e idee, sentimenti. In questo modo gli
italiani vengono educati, fin dalle aule scolastiche, a formarsi un’
immagine opaca del mondo per mezzo di parole generiche e vuote.
Da
qualche tempo si sente ripetere che l’Italia è tornata protagonista.
Per il momento sembra più che altro sommersa dalla fuffa.