Corriere 27.1.16
Il carcere, morte parziale
L’autore fa venire il dubbio che si senta lui il colpevole dinanzi alla crudeltà della detenzione
Dolore, iniquità, sogni di riscatto nel carteggio tra un giudice e un ergastolano
di Corrado Stajano
C’è
un dialogo in questo libro di Elvio Fassone, Fine pena: ora ,
pubblicato da Sellerio, che fa sobbalzare. Fassone è un magistrato
illustre, ha fatto parte del Csm, è stato per due legislature senatore
della Repubblica. Il suo interlocutore, Salvatore, è un mafioso catanese
imputato in Corte d’Assise, pluriomicida, futuro ergastolano...
«“Presidente, lei ce l’ha un figlio?”
Ne ho tre, e il maggiore ha solo qualche anno in meno di Salvatore. (...)
“Glielo
chiedo perché le volevo dire che se suo figlio nasceva dove sono nato
io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio,
magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo”».
È un libro
dolorante e bellissimo, una storia minuziosamente vera, scritta con
umanità profonda, senza falsa pietà, senza linguaggi melensi. Il giudice
e l’ergastolano sono soltanto uomini, alla pari, anzi qualche volta
Fassone fa persino venire il dubbio in chi legge che si senta lui il
colpevole, nel nome di una società che non fa ciò che deve: «La
detenzione, ove non mitigata da un trattamento educativo reale, è una
morte parziale , l’asportazione di una porzione di vita», scrive in una
pagina del libro. E ancora: «La comunità offesa dal delitto si fa
risarcire con fette di vita prelevate chirurgicamente da quel bisturi
inappuntabile che è il processo».
Com’è nato questo libro che ha
echi dostoevskijani e rammenta anche certi squarci di Dürrenmatt, ma è
privo di ogni tentazione letteraria? Elvio Fassone, nel 1985 presiede a
Torino, in Corte d’Assise, un maxiprocesso, 242 imputati della mafia
catanese, 300 mila fogli di istruttoria.
Salvatore ha 27 anni, è
sotto giudizio per un’infinità di delitti efferati. Già dalla prima
udienza vuol mostrare di essere un capo, non risponde agli appelli, si
arrampica come una scimmia sulle sbarre della gabbia. Fassone non alza
la voce, rifiuta le provocazioni. Salvatore, intelligente, scaltro, non
insiste.
Una serie di fatti fa sì che il mafioso guardi con occhi
attenti il giudice. Non è un mostro: autorizza il viaggio in Sicilia di
Salvatore — la madre sta morendo — fa sì che ad accompagnarlo siano
agenti in borghese. I vicini di casa non lo vedranno con le manette ai
polsi. Fassone decide poi di dedicare una parte del pomeriggio ai
bisogni innumerevoli dei detenuti, il ricevimento di un’umanità varia e
questo gli crea consenso.
Il processo dura più di un anno, la
camera di consiglio, nella foresteria del carcere, dura un mese. Per
leggere la sentenza occorrono tre ore. «Assassini» urlano imputati e
famigliari. Commenta il giudice: «In fondo la donna che ha gridato ha
qualche viscerale ragione: anche noi stiamo spegnendo una vita, sia pure
dietro lo scudo della legge».
L’udienza è tolta, ma non per Elvio
Fassone. Salvatore gli è rimasto nella mente. Decide di scrivergli —
«con che spirito leggerà queste parole, se non come l’ipocrita tentativo
del carnefice di sgravarsi la coscienza accarezzando la sua vittima?» —
gli manda anche un libro, Siddharta , di Hermann Hesse, leggenda sui
sentimenti fraterni, più taoista che indiana. Come reagirà? Manderà al
diavolo quello strano giudice che gli scrive: «Potrà perdere la libertà
per un tempo anche lungo, ma non deve perdere la dignità e la speranza»?
Salvatore
invece risponde: «Presidente, io lo so che lei mi ha dato l’ergastolo
perché così dice la legge, ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare. E
io la ringrazio del libro e le assicuro che farò come lei dice».
Si scriveranno per 26 anni.
Fine
pena: ora è uno specchio del mondo, un altro mondo, malvagio. Le
lettere sono genuine, nessuno dei due ha da chiedere qualcosa all’altro.
Fassone, si capisce, non trova mai una risposta all’interrogativo del
giudice onesto: «Perché si punisce?». E soprattutto: «Chi sono io per
punire?». Salvatore non perde la speranza. Prende un diploma di
giardinaggio, vuol fare un corso di ebanista, poi un altro corso di
grafica, lavora in cucina, diventa un attore non disprezzabile in una
compagnia del carcere, ha l’ambizione di arrivare al diploma di terza
media e per studiare rinuncia anche all’ora d’aria. Commenta Fassone:
«Il confronto è inevitabile con certe levigate adolescenze, punteggiate
di magliette e scarpe griffate».
Ma l’inferno è certo. «Che vuole
che ci aspetti, a chi nasce nel Bronx di Catania?» «Dice proprio così»,
scrive il giudice, «deve averlo sentito alla televisione, e lo ripete
con eleganza guappa e disperata».
La libertà è come un miraggio,
l’acqua nel deserto. Il libro insegna che cosa è la prigione più di
tanti trattati di criminologia. Il 41bis è una tragedia, le carceri di
massima sicurezza cancellano ogni forma di vita. Le lettere di Salvatore
si fanno sempre più cupe. Salvatore sente il suo destino come una cappa
maledetta. «Ce lo detto presidente, che dove cammino io non può
crescere l’erba... che se io tocco l’oro diventa ferro». Ma
all’ergastolano che non vuole perdere la speranza le lettere del giudice
sono davvero utili. «Le condanne non insegnano nulla, anzi
ingattiviscono, ma lei le sue lettere insegnano tanto, sono come un
libro che insegna la vita».
I permessi, le licenze, la semilibertà
sono i sogni, le ragioni di vita, come l’art.21 dell’Ordinamento
penitenziario, il lavoro all’esterno.
Ma il primo permesso è un
trauma: «Presidente, non sapevo nemmeno camminare. Fuori anche l’aria
che si respira è diversa da dentro. È tutto nuovo per me, le macchine,
la roba che c’è nei negozi, la gente come è vestita, anche il fatto di
pagare con l’euro».
Rosi, la ragazza che per anni è andata a trovarlo di penitenziario in penitenziario, lo lascia. Un dolore immenso.
Lavora
in un vivaio, media nel conflitto tra gruppi di carcerati, potrebbe
essere elogiato, viene invece ritenuto un capo, perde ogni beneficio. La
burocrazia è ottocentesca, non gli viene dato l’articolo 21 perché un
detenuto che l’ha avuto ha violentato una ragazza. Si sente un
perseguitato — «non c’è amarezza o sofferenza che non ho conosciuto» —
Il giudice cerca di incoraggiarlo, non è facile.
Poi un nuovo
trauma. Nella sua cella le guardie trovano un telefonino. Salvatore non
c’entra. Sarebbe stato facile controllare i numeri. Non viene fatto:
tutti al 41bis, cancellata ogni misura alternativa.
L’ergastolano
scrive a Fassone: «L’altra settimana ne ho combinato una delle mie: mi
sono impiccato, mi scusi». Un agente di custodia lo salva.
È
passato più di un quarto di secolo. Elvio Fassone osserva una fotografia
di Salvatore. Quando l’ha conosciuto era «un fascio di muscoli e di
nervi, pronto a scattare come una molla compressa». Adesso sembra L’urlo
di Munch.