mercoledì 27 gennaio 2016

Il Sole 27.1.16
L’apertura del Papa: Iran fondamentale per la pace
Se Roma è stata scelta come prima tappa dell’importantissimo tour europeo di Hassan Rohani è certamente un riconoscimento al ruolo storico (e attuale) dell’Italia. Ma certamente ha pesato in modo determinante il programmato incontro con Papa Francesco (nella foto), passaggio fondamentale per il nuovo corso di Teheran. Continua?pagina?6
di Carlo Marroni

Continua da pagina 1 Se infatti pr l’Iran il dividendo politico dell’intesa si preannuncia molto ricco, per tutti, l’incontro «di vera sostanza» con il Papa – come rileva una fonte d’Oltretevere – rappresenta lo sdoganamento non tanto verso l’Occidente ma in una piattaforma mobile di relazioni interreligiose che vanno molto oltre le geometrie variabili della geopolitica, dove gli scenari cambiano rapidamente e in ogni fase si cerca degli alleati per realizzare un fine determinato. E su questo piano che si muove il Papa, e proprio grazie a questo approccio “pastorale” contribuisce in modo determinante a grandi disegni, come nel caso dell’accordo tra Usa e Cuba o a quello ormai prossimo tra Colombia e Farc.
La Santa Sede da molto tempo ha un rapporto molto fecondo con l’Iran, dove peraltro vive una delle più piccole realtà cattoliche dell’area: poco più di 20mila fedeli, divisi tra tre diversi riti liturgici (latini, caldei e armeni) e polverizzati nel mare musulmano sciita di 70 milioni di persone, di cui il 50 per cento giovani. Eppure il rapporto con il modo sciita è da tempo molto stretto, tanto che da un anno e più dentro le mura c’è chi parla di “opzione sciita”. In realtà c’è un lavoro soprattutto interreligioso, portato avanti in particolare dal cardinale Jean Louis Tauran, abile diplomatico della vecchia scuola e molto vicino a Francesco (che lo ha nominato pure Camerlengo), che da molti anni guida appunto il dicastero de rapporto con le altre religioni, Un anno fa è tornato a Teheran - c’era già stato nel 2001 - e al suo ritorno parlò di «diversi modi di vivere l’islam. E in quelli che incontro noto certamente una accresciuta sensibilità. L'ho sperimentata ad esempio nel corso dei colloqui avuti con i responsabili sciiti». La questione dei rapporti con l'Islam – di cui si occupa molto anche la Comunità di Sant'Egidio, crocevia essenziale in queste partite giocate tra politica e fede - è complessa e delicata, specie in questa fase storica di terrorismo di nuova matrice che ha ricevuto e riceve appoggi da ambienti vicini alle monarchie sunnite del Golfo e altri attori dell'area. I cristiani in Siria e Iraq sono da tempo vittime di una feroce pulizia etnica e quindi è un’urgenza favorire il rientro dell'Iran all'interno di una dinamica diplomatica.
Il Papa, assieme al suo ”primo ministro” cardinale Pietro Parolin, condannano la violenza e cercano il dialogo, senza escludere nessuna opzione. All'indomani della visita al Tempio Maggiore di Roma Bergoglio ha ricevuto l'invito per la Grande Moschea di Roma: un visita di grande significato, visto che in quell'occasione potrebbe avere contatti ufficiali anche con esponenti dell'Arabia Saudita, regno con cui la Santa Sede non ha rapporti diplomatici.
Una “pastorale” planetaria, quindi, verso le altre religioni - ebrei e musulmani prima di tutti - per ridare slancio ad uno “spirito di Assisi” che renda le preghiere comuni atti permanenti di riferimento per i rispettivi fedeli. Del resto anche Rohani, quando ieri davanti al mondo delle imprese ha parlato della convivenza «una accanto all’altra» di chiese, sinagoghe e moschee, ha dato uno spessore inatteso alla giornata davvero storica, che lo ha visto varcare la soglia della cattolicità. C’è inoltre la conferma del ruolo di leadership di Francesco in una fase storica in cui peraltro i capi delle maggiori potenze stanno mostrando chiari segni di difficoltà.
Nell’anno del Giubileo rancesco ridurrà di molto i suoi viaggi - dopo la grande mobilità del 2015 - per concentrarsi sulla missione spirituale. Ma ha deciso di andare in Svezia per celebrare i 500 anni della Riforma luterana: un segno di straordinaria attenzione ecumenica verso gli altri cristiani, così come ha fatto verso i fratelli ortodossi. Un altro tassello della sua “pastorale planetaria”.

Il Sole 27.1.16
Chi è il presidente iraniano, formatosi nella città santa di Qom, «Vaticano dello sciismo»
Uomo di pulpito, penna e spada
di Alberto Negri

Chi è davvero l’uomo che ha incontrato ieri Papa Francesco condividendo «comuni valori spirituali»? Per conoscere Hassan Rohani bisogna andare a Qom, la città di Fatima, un milione di abitanti e una settantina di scuole teologiche: è un immenso seminario, con dozzine di istituti di ricerca nei campi più svariati: filosofia, esegesi coranica, teologia (anche cristiana) diritto, economia, sociologia. E ancora: sono almeno cento le case editrici, con riviste in persiano e in inglese, a tutto questo si aggiungono centri per l’informatizzazione delle monumentali opere di islamistica, migliaia di libri e manoscritti e oltre 30 grandi biblioteche, autentici templi del sapere.
Fu in questo “Vaticano dello sciismo” che Hassan arrivò poco più che ragazzino. Il padre Asadollah Fereydoun era un mercante che aveva il compito di raccogliere e portare a Qom le tasse religiose per conto del Grande Ayatollah Hussein Borujerdi, il maestro di Khomeini. Fu così che nell’estate del 1961 Asadollah portò con sé il figlio tredicenne Hassan per avviarlo alla carriera clericale.
A soli quindici anni, spiega Rohani nella sua autobiografia, partecipò alla rivolta del giugno 1963 contro lo Shah, che portò alla ribalta Khomeini come capo incontrastato dell’opposizione radicale. Furono anche questi avvenimenti che spinsero il giovane Hassan a cambiare il proprio cognome originario da Fereydoun, un nome pre-Islamico, a Rohani che in farsi significa “chierico”.
Non è questo l’unico mistero del presidente iraniano che tiene molto riservato il forte legame familiare che lo collega strettamente all’Italia. Più nota a tutti è invece la ragione della sua ascesa popolare.
Nel 1977 Rohani finì sotto i riflettori del mondo clericale e della polizia dello Shah in occasione della cerimonia di commemorazione di Mustafa Khomeini, il figlio dell’ayatollah rivoluzionario deceduto a Najaf in Iraq. Rohani salì sul pulpito per assegnare un nuovo titolo al grande esiliato: quello di “Imam”, termine riservato nello sciismo soltanto ai dodici successori riconosciuti del Profeta Maometto.
Ma le sorprese non finiscono qui. Rohani non è solo uomo di penna e di pulpito ma anche di spada. Comandante di plotone durante il servizio militare sotto lo Shah, dopo la rivoluzione del 1979 verrà chiamato da personaggi influenti come Alì Khamenei, l’attuale Guida Suprema, e Hashemi Rafsanjani, a occuparsi della difesa dell’Iran. Rohani è incaricato della riorganizzazione dell’esercito, decimato dalle epurazioni, E con l’attacco dell’Iraq di Saddam Hussein nel settembre 1980, Rohani diventa capo del conglomerato Khatam al-Anbiya, gestito dai Pasdaran, e della Difesa aerea.
Poi c’è anche il Rohani agente segreto. Nel 1986 fa parte del gruppo ristretto di funzionari che incontra a Teheran Robert MacFarlane, ex consigliere per la Sicurezza di Ronald Reagan atterrato nella capitale iraniana per vendere armi alla repubblica islamica in cambio di fondi per sostenere le milizie anti-sandiniste dei Contra in Nicaragua. È il famoso scandalo Iran-Contra. Rohani era favorevole allo scambio, come riportano i documenti americani: ecco uno dei motivi perché l’accordo sul nucleare e la cancellazione delle sanzioni si è conclusa anche con uno scambio di prigionieri. Come ha detto ieri il presidente iraniano in ogni scambio deve esserci sempre una soluzione win-win, dove tutti devono guadagnare.

Il Sole 27.1.16
Il tic del referendum e un Parlamento che non basta più
di Lina Palmerini

Colpisce sentire il ministro dell’Interno Angelino Alfano paventare già l’ipotesi di un referendum abrogativo prima ancora che il provvedimento sulle unioni civili entri nel vivo del dibattito al Senato. E ha colpito Matteo Renzi quando ha trasformato la riforma costituzionale – peraltro non ancora approvata – in un test di fiducia su se stesso, spostando il dibattito dalle aule parlamentari alle “piazze” mediatiche. E fa anche riflettere che oggi si voti al Senato una mozione di sfiducia contro il Governo e i conflitti di interesse del ministro Maria Elena Boschi ma che l’esito – qui – sia scontato ma nelle piazze di Arezzo, dove l’opposizione manifesta con i risparmiatori, lo sia molto meno. L’impressione, insomma, è che sulle questioni fanno la differenza sul piano popolare - e quindi politico ed elettorale – i partiti cerchino una storia e un finale altrove. È come se il Parlamento fosse diventato un luogo insufficiente a dare l’ultima parola sui grandi temi.
Prendiamo la questione degli immigrati, la mossa di alcuni Paesi europei tra cui Germania e Francia di sospendere Schengen, ripristinare i confini e scaricare sull’Italia l’onere di gestire i flussi dal mare: ecco, tutto questo sfugge ai lavori parlamentari. Magari entra nelle Camere ma attraverso un botta e risposta tra deputati, come polemica tra partiti ma senza meritare il rango che avrà, per esempio, la mozione di sfiducia di oggi. Eppure è ugualmente cruciale per i cittadini sapere – oltre che dei conflitti di interessi del ministro Boschi e di suo padre - cosa accadrà quando inizierà la bella stagione sulle coste italiane e come verranno gestiti i profughi con la nuova chiusura dei confini. Se ne parla invece fuori nelle piazze, anche attraverso gli scontri, come è accaduto ieri a Trieste e come potrebbe accadere di nuovo a Milano domani quando Salvini vedrà Marine Le Pen. I due luoghi, la piazza e il Parlamento, naturalmente possono coesistere ma il fatto che una scena – quella parlamentare – sia pressoché svanita pone una domanda su quali siano i motivi.
Il primo è senz’altro quello della delegittimazione. Per i cittadini ma perfino per chi fa politica, il Parlamento è diventato un non-luogo perché è la sede dei trasformismi, del nomadismo opportunista. Ma è un non-luogo anche perché non corrisponde più al peso che hanno oggi le forze politiche. Nel 2013 tutti i parlamentari di centro-destra sono stati eletti sotto la sigla Pdl che non c’è più, il Pd ha un gruppo che è nato con le liste di un ex segretario, Mario Monti è fuggito da Scelta civica e perfino la Lega e i 5 Stelle hanno avuto le loro piccole scissioni. In queste condizioni è chiaro che il Parlamento non ha la forza per assumere su di sé grandi temi. I principali leader non sono neppure eletti: non Renzi, non Grillo, non Salvini.
Anche per la riforma costituzionale è stato considerato politicamente necessario sin dall’inizio – al di là delle regole costituzionali prontamente attivate – il bagno popolare di un referendum. Ci si è mossi subito come se quella legittimazione fosse buona per metà e ne servisse un’altra più “vera” passando tra la gente, con una campagna elettorale e un coinvolgimento più largo di quello di un Parlamento viziato da troppi difetti di rappresentanza.

Il Sole 27.1.16
A Bruxelles
Padoan propone il sussidio Ue ai disoccupati
di Davide Colombo

Roma La proposta italiana per l’adozione di uno schema di assicurazione europea contro la disoccupazione di natura ciclica passa per la costituzione di un Fondo in cui far confluire una parte delle risorse oggi spese in diversi programmi nazionali. Questo strumento potrebbe essere alimentato anche da una frazione dei contributi versati da lavoratori e imprese senza tuttavia aumentare il costo del lavoro a livello nazionale. Ieri il ministro Pier Carlo Padoan, ha presentato alla Commissione occupazione del Parlamento europeo la proposta di uno stabilizzatore automatico a livello di Eurozona che potrebbe essere adottato senza modificare il Trattato Ue.
La proposta era stata avanzata all’inizio del semestre europeo a presidenza italiana (luglio 2014) e successivamente perfezionato. Nello schema presentato da Padoan a gestire il Fondo potrebbe essere la Commissione Ue coordinando gli interventi con le autorità nazionali, interventi che scatterebbero in caso di crisi che determinano l’aumento del tasso di disoccupazione oltre una certa soglia. L’assicurazione contro la disoccupazione determinata da shock ciclici sarebbe di breve durata (6-8 mesi nelle ipotesi tecniche) e con un tasso di sostituzione del 40-50%, che potrebbe essere incrementato a livello nazionale. Ed è previsto un principio di condizionalità per i beneficiari dell’assicurazione all’interno dei programmi di politiche attive.
Uno stabilizzatore automatico di questa natura aiuterebbe - secondo il ministro - una più solida convergenza all’interno dell’Uem , che si doterebbe di uno strumento valido per prevenire shock asimmetrici come quelli innescati dalla lunga recessione. Il tasso di disoccupazione nell’Uem è attualmente al 10,5%, tre punti superiore ai livelli del 2007. «A settembre 2015 in Europa si contavano 6,5 milioni di disoccupati in più rispetto a marzo 2008» ha detto Padoan. Per il ministro si pone un «rischio di emarginazione sociale, che aumenta all’aumentare del periodo di disoccupazione». L’ammortizzatore europeo, se ben congegnato, potrebbe liberare risorse nazionali per affrontare la disoccupazione strutturale evitando trasferimenti permanenti da uno Stato membro a un altro e comportamenti di moral hazard delle imprese.

Il Sole 27.1.16
Roma, città senza progetti in fondo alle classifiche Ue
di Lorenzo Bellicini

Un recente lavoro promosso da Acer Roma e Camera di Commercio, ha consentito a Cresme di sviluppare una analisi comparativa tra Roma e alcune delle principali città europee, dalla quale emergono tre aspetti che vorrei porre all'attenzione del dibattito che oggi sta riprendendo sulla capitale (governo della città e Olimpiadi in primo piano).
Il primo riguarda la dimensione economica e la considerazione internazionale della nostra capitale. Il prodotto interno lordo dell'area metropolitana romana (4 milioni di abitanti) è valutato da Eurostat nel 2010 in 136 miliardi di euro. In termini di ricchezza prodotta Roma è il settimo mercato europeo. Certo è lontana da Parigi (588 miliardi e 12 milioni di abitanti) e Londra (505 miliardi e 11 milioni di abitanti); ed è distante anche da Madrid, che vanta 190 miliardi. Ma è vicina a Milano (145 miliardi) e Barcellona (143 milioni), e supera Berlino (132) e Monaco (130). In ogni caso il peso economico di Roma in Europa è rilevante. Sorprende quindi che analizzando le principali ricerche comparative a livello internazionale, la settima area economica europea, che occupa i primi posti per immagine e interesse potenziale come luogo turistico, sui temi della funzionalità, della qualità della vita urbana, o dell'interesse per la localizzazione di investimenti, crolla velocemente in fondo alle classifiche, e addirittura, negli ultimi tempi, scompare dalle classifiche.
Roma non sembra più un'area interessante da considerare e da studiare, nonostante le sue dimensioni economiche rilevanti. E questo per almeno tre ragioni: la sua importante economia è quasi tutta autoreferenziale, non guarda fuori (se non per il turismo), potremmo dire è una capitale di provincia di "grande bellezza"; il noto cattivo funzionamento della sua macchina urbana, la sua disorganizzazione, l'incapacità di essere eccellente (che si misura con indicatori che vanno dalla pulizia, alle strade, ai tempi delle decisioni, al rispetto delle regole) ne evidenzia una condizione marginale nei fondamentali, che pesa nelle scelte localizzative e nei giudizi che riguardano il lavoro; ma è anche l'assenza di un pensiero sul futuro, che ne mina le ambizioni. Roma è, da anni, una metropoli senza disegno per il futuro a differenza di tutte le altre città europee.
Il secondo aspetto riguarda la popolazione. Roma ha una percentuale di popolazione con oltre 64 anni pari al 33% di quella in età lavorativa, contro il 20% o poco più di Parigi, Londra, Amsterdam, Stoccolma. Nel 2030 questa percentuale salirà a oltre il 40%. Perché Roma ha anche pochi giovani per il ricambio (la popolazione da 0 a 19 anni è pari al 31%, contro il 40% di Londra o Parigi). Del resto l'indicatore più drammatico riguarda proprio la disoccupazione giovanile (15-24 anni) che a Roma raggiunge nel 2014 il 48,9%, mentre a Parigi è il 21%, a Londra il 18%, a Amsterdam il 14% e a Monaco il 5%.
Lo scenario che emerge è un pesante processo di invecchiamento che mina la sostenibilità economica della città. È la stessa possibilità di futuro che a Roma appare assai debole. Anche perché se è vero che Roma vanta una tra le più potenti strutture universitarie europee, la percentuale di laureati sulla popolazione in età lavorativa, secondo Eurostat, è pari solo al 24%, a Madrid sale al 41%, a Londra al 44%, a Amsterdam al 52% e a Parigi al 61%. Roma sembra aver perso il ruolo, tipico della metropoli, di area traino dell'innovazione.
Il terzo aspetto riguarda la trasformazione urbana. Cresme ha stimato che gli investimenti in costruzioni nel 2010 a Roma erano pari a 10 miliardi, contro gli inarrivabili 76 di Londra, i 55 di Parigi, ma assai lontani dai 30 di Berlino, i 28 di Madrid (nonostante la crisi), i 22 di Barcellona, i 17 di Stoccolma, ma anche i 13 di Milano. La spesa per costruzioni pro-capite a Roma è di 2.400 euro per abitante, a Londra 5.600, a Parigi 4.700. A Stoccolma si è arrivati a oltre 8.000 euro nel 2010. Per non dire degli investimenti in opere pubbliche, che scendono a 466 euro a abitante a Roma, contro i 2.700 di Stoccolma, o i 1.600 di Amsterdam e Madrid. Nelle altre capitali si concentrano risorse ingenti, pubbliche e private, per renderle sempre più competitive e funzionali, guardando al futuro. Roma appare vecchia, con una macchina organizzativa drammaticamente inefficiente, un basso livello culturale e soprattutto senza progetto per il futuro, pur restando nell'immaginario internazionale uno dei principali luoghi da visitare. Roma, dunque, ha ancora una grande potenzialità, ma un drammatico bisogno di un salto di qualità nel funzionamento della macchina che la governa, di investimenti e soprattutto di idee e progetti per il futuro. Per tornare a crescere trasformandosi. In fondo, a pensarci bene, il progetto è tornare ad essere «civitas augescens».

il manifesto 27.1.16
Roma 2024, Giachetti sconfessa il referendum radicale
Olimpiadi. Il vicepresidente della Camera e candidato alle primarie del Pd: «Non firmo»
di Eleonora Martini

ROMA Il tradimento ad un pezzo importante della propria storia di Radicale, Roberto Giachetti, al momento unico candidato alle primarie del Pd per il Campidoglio e tuttora militante del partito di Pannella, lo racconta ai microfoni di «Un giorno da pecora», su Radio 24: «Io lo trovo abbastanza singolare — dice — Il referendum a Roma è consultivo, mi domando come mai non sia stato proposto e fatto prima che si prendesse la decisione. Dopodiché io non ho nessun problema, raccolgano le firme per il referendum. Io non firmo perché sono convintissimo della candidatura di Roma».
E pensare che solo il giorno prima, durante il lancio ufficiale della raccolta delle prime mille firme per il referendum Roma 2024 promosso da Radicali italiani e Radicali Roma, Emma Bonino rispondendo alle domande di un cronista aveva detto: «Mi sembrerebbe difficile, nella storia politica di Roberto Giachetti, individuare una qualunque motivazione di diniego al metodo refenderario. Mi sembrerebbe abbastanza originale un “no” a questo metodo o alla consultazione popolare».
Con la stessa sicurezza, anche Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani, lo aveva escluso. E così, se non una rottura con i suoi compagni di sempre, quella del candidato sindaco preferito di Matteo Renzi è di certo una sconfessione alla battaglia referendaria sulla candidatura olimpica dell’Italia lanciata dal governo bipartisan. Una presa di posizione che in ogni caso non cambierà i rapporti del vicepresidente della Camera con i Radicali anche se, spiegava il giorno prima Magi, «il nostro apporto a una candidatura di Giachetti può essere utile se non è automatico e incondizionato».
Ora però l’amarezza c’è: «All’amico Giachetti voglio ricordare che la proposta di referendum noi l’abbiamo fatta subito, nell’estate del 2015, quando l’Aula del Campidoglio si preparava a votare sulla candidatura. E invece dovrebbe– continua Magi — chiedersi perché non siano state le istituzioni stesse a promuovere una consultazione popolare prima di prendere posizione, sull’esempio di città quali Amburgo, Boston, Monaco o Oslo?».
Per i Radicali, si sa, il referendum è lo strumento d’eccellenza per la partecipazione democratica: «Per noi questa è soprattutto l’occasione per aprire un grande dibattito pubblico sui pro e i contro», aggiunge Magi. Ma l’iter per arrivare al voto, quando l’iniziativa non è delle istituzioni, è lungo: le prime mille firme che il comitato promotore sta raccogliendo (anche su referendumroma2024​.it) servono per depositare il quesito in Campidoglio, che nel giro di un mese dovrà decidere l’ammissibilità. Solo da quel momento i proponenti avranno trenta giorni per le altre 28 mila firme necessarie. Poi un anno ancora di attesa.
Ad occhio e croce, se tutto va bene, i romani hanno tempo fino alla primavera del 2017 per farsi un’idea del rapporto costi/benefici e per potere esprimere un parere nell’urna. Giusto in tempo per avvisare il Comitato olimpico internazionale che il 13 settembre 2017 deciderà quale città si aggiudicherà i Giochi 2024.
Nel merito, i Radicali italiani lo hanno detto chiaramente: nessuna contrarietà pregiudiziale né alle grandi opere (Bonino per esempio si è sempre detta favorevole all’Expo) né alle Olimpiadi. «Con il referendum vogliamo assicurarci un percorso trasparente e benefici certi per la città».
Però i problemi e le perplessità sono tante. Magi li elenca, in ordine sparso: «Lo studio di fattibilità promesso a dicembre 2014 “entro due o tre mesi” da Renzi non si è ancora visto; l’Italia ha appena finito di pagare il mutuo per le opere dei mondiali di calcio del 1990; Montezemolo e Malagò tornano sul luogo del delitto, a Tor Vergata, dove dovrà sorgere il villaggio olimpico e dove è già previsto che il consorzio guidato da Caltagirone, grazie ad una concessione esclusiva, completi la realizzazione del campus universitario» pensato inizialmente per rendere candidabile la capitale alle Olimpiadi del 2016.
«Una scommessa molto rischiosa», la definiscono i Radicali italiani nel dossier che accompagna la raccolta firme. «Tra budget preventivi che sistematicamente esploderanno e opere che non saranno completate, il rischio è che sia una stangata che si ripercuoterà sulle tasche dei cittadini per venti o trent’anni». La chiamano la «maledizione delle Olimpiadi», ma la superstizione non c’entra.

il manifesto 27.1.16
L’importanza di chiamarsi Marino. Ma è Estella
Roma/Primarie Pd. Minoranza alla ricerca di un candidato contro Giachetti. Spunta l'ex assessora all'ambiente, la più votata alle scorse comunali
di Daniela Preziosi

C’è il nome di Marino nelle primarie del Pd: ma è una donna. L’ipotesi di candidare contro Roberto Giachetti la quarantenne ingegnera ed ex assessora all’ambiente Estella Marino circola da giorni nel Pd romano di rito ’mariniano’, e cioè quello che non ha mai digerito la defenestrazione del sindaco, che è andato in piazza a sostenerlo e che sabato scorso è salito sul palco del teatro Brancaccio a dire ad alta voce che la rottura del centrosinistra è un disastro per la Capitale. E a dire pure, ma a voce più bassa in platea, che in Giachetti non si riconosce. Quest’area del Pd, minoranza cuperlian-bersaniana ma non solo, avrebbe votato volentieri Marino, nel senso di Ignazio, a patto di non rompere con il Pd. Contenti tutti: anche Giachetti avrebbe voluto il chirurgo, considerato un avversario facile, come sparring partner dei gazebo. Ma l’ex sindaco venerdì ha spiegato a Repubblica che comunque non si candiderà alle primarie Pd. Per la stessa ragione sarebbe già sfumata l’ipotesi dell’ex ministro Bray, caldeggiata da D’Alema, ma fuori dalle primarie: chi lo sostiene finirebbe per mettersi fuori dal partito. E la minoranza Pd, o meglio il suo ceto politico, non vuole fare il grande salto, almeno non al buio.
A questo punto nella minoranza dem si è fatta largo l’ipotesi di non candidare nessuno: meglio far saltare le primarie che offrire volontari a perdere. L’ipotesi però non convince tutti. Perché senza un area di riferimento per i non renziani il posto in lista si trasformerebbe in un rodeo. Meglio avercelo, un nome, anche perdente, che comunque se la giochi pescando nell’area degli scontenti, parlando agli ex alleati di sinistra, magari apprezzando qualcuna delle proposte lanciate da Stefano Fassina al Pd (oggi il commissario dem Orfini e il coordinatore di Sel Paolo Cento si incontrano, ma le possibilità di rifare l’alleanza sono pari a zero). Meglio se fosse una donna. Meglio ancora se, come recita la biografia istituzionale di Estella Marino, «con 9.221 preferenze è risultato il consigliere comunale del Pd più votato della Capitale». E se poi qualche malalingua sostiene che la metà di questi voti le sono arrivati perché si chiamava come l’omonimo candidato sindaco, vuol dire che finirà bene come la commedia di Oscar Wilde: l’importanza di chiamarsi Marino.

Il Sole 27.1.16
La concorrenza delle aziende di Pechino a Teheran
Quella difficile sfida al gigante cinese
di Alberto Negri

Quella tra Hassan Rohani e Matteo Renzi in Campidoglio è stata una conversazione franca, condotta tutta in inglese, senza intermediari. E Renzi non ha rinunciato a ricordare i legami familiari di Rohani con l’Italia.
 il presidente iraniano però è stato assai chiaro con il capo del governo: «Servono soft loans, crediti favorevoli e garanzie bancarie, abbiamo bisogno di soldi per chiudere i contratti con l’Italia». In poche parole i fondi li portiamo noi e poi ci saranno, e già ci sono, grandi prospettive in Iran. «Li avrete», è stata la risposta di Renzi. Questo questo vale per gli italiani e per tutti gli altri partner europei, francesi compresi: senza però farsi troppe illusioni.
Negli anni delle sanzioni il posto dell’Europa in Iran è stato occupato da altri e da un gigante al quale sarà complicato se non quasi impossibile fare concorrenza: la Cina.
L’Iran guarda a Ovest ma va a Est. Le cifre sono da capogiro e le conseguenze geopolitiche di grande rilevanza non solo per il Medio Oriente ma per una vasta aerea di mondo che va dal Mediterraneo all’Asia centrale. L’eurocentrismo, ogni giorno che passa, subisce contraccolpi non solo politici ma anche economici.
Il presidente cinese Xi Jinping si è recato a Teheran per aprire un nuovo capitolo nei rapporti già intensi con Pechino. Sono stati firmati 17 protocolli di intesa per un controvalore di 600 miliardi di dollari entro i prossimi 10 anni, accordi che vanno dalla politica all’economia, alla sicurezza. La visita di Xi assume un rilievo particolare perché la Cina era già il principale cliente del petrolio iraniano sotto sanzioni per il controverso programma nucleare di Teheran. Ora che sono state revocate le esportazioni verso Pechino sono destinate ad aumentare ulteriormente. La Cina intende investire massicciamente nel necessario ammodernamento del sistema di estrazione, trasporto e raffinazione del greggio di Teheran, ormai obsoleto a causa delle sanzioni.
L’interscambio commerciale al 2014 era già a quota 54 miliardi di dollari e secondo i media iraniani un terzo delle esportazioni di Teheran è diretto verso Pechino. Nei primi 11 mesi del 2015 la Cina ha importato quasi 25 milioni di tonnellate di greggio e a continuato ad investire al confine con l’Iraq. Su questa frontiera i padroni sono i Pasdaran con le loro fondazioni: si investe nell’immobiliare, nell’energia, nelle infrastrutture, in campo agroalimentare, nei porti.
E c’è dell’altro. L’Iran è diventato l’hub della One Belt One Road (Obor) cinese, una rete di infrastrutture regionali, soprattutto di ferrovie ad alta velocità, destinata a convogliare gli investimenti cinesi in Asia centrale.
Questi rivolgimenti si erano già profilati a Ufa, nella profonda provincia russa, dove nel luglio scorso andò in scena un doppio summit, quello dei Paesi emergenti del Brics e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco). Insieme con l’Unione euroasiatica, la Sco potrebbe inglobare nel suo mercato comune futuro anche realtà non ex sovietiche, l’India, il Pakistan e lo stesso Iran e coronare i megaprogetti cinesi di Nuova Via della Seta
Dal summit di Ufa la geopolitica dell’Eurasia rilanciava sulla scena il triangolo Mosca-Pechino-Teheran che ha un carattere strategico per l’Iran. Mosca e Teheran in questi anni, nonostante alcune diffidenze reciproche, sono diventati alleati per forza. In funzione non solo anti-americana ma anche per proteggere i loro alleati nel Levante come il regime siriano di Bashar Assad. Fu proprio Putin insieme a Papa Bergoglio a frenare Obama dall’idea di bombardare Assad nel 2013 per l’uso di armi chimiche. Sono lontani i tempi in cui l’Imam Khomeini inviava una lettera a Gorbaciov chiedendogli di convertirsi all’Islam: oggi Mosca vede nell’Iran e nel mondo sciita una sorta di antemurale da opporre all’avanzata del radicalismo sunnita nel Caucaso.
E la Cina fornisce ai Pasdaran oltre il 40% delle forniture militari, cui bisogna aggiungere quelle di Mosca. L’Iran è ancora un Paese in guerra, non dimentichiamolo. Chi non lo ha scordato è sicuramente Ali Khamenei, la Guida Suprema, che ieri ha incontrato il presidente cinese - evento di solito non scontato - affermando che «l’Iran non dimenticherà mai l'aiuto dato da Pechino a Teheran durante gli anni delle sanzioni: ci fidiamo più di voi che dell'Occidente».
Certo l’Iran è una partita aperta soprattutto per l’Italia: l’accordo con gli Usa e lo scambio di prigionieri con la repubblica islamica ha portato un piccolo regalo ma significativo. La Sepah Bank dei Pasdaran, unica banca iraniana in Italia, è stata tolta della lista nera americana. Fare affari si può ancora.

il manifesto 27.1.16
Croazia
Più a destra di Orbán nasce il governo di Timor Oreskovic
di Luka Bogdanic

Lo scorso venerdì, dopo 11 ore di dibattito parlamentare e 30 giorni di crisi politica a seguito dell’esito senza vero vincitore delle ultime elezioni, la Croazia ha un governo: l’esecutivo di destra guidato da Tihomir Oreskovic, manager croato-canadese di un’azienda farmaceutica israeliana.
È un tecnico non eletto, ma scelto come nome di compromesso tra i partiti di Hdz e del Most (il Ponte). Oreskovic parla male il croato, tanto che in Parlamento, invece di tenere un discorso politico, ha preferito presentare il suo programma in PowerPoint. Il suo principale campo d’interesse sarà l’economia, mentre il potere politico sarà nelle mani Tomislav Karamarko, presidente di Hdz e vicepremier, già capo dei servizi segreti. Solo in parte il potere sarà diviso con Bozo Petrov, leader di Most (debole lista di amministratori locali, su cui gira voce di legami forti con l’Opus Dei).
Il Ponte, nelle elezioni aveva presentato un programma di sonore promesse animate da spirito antipolitico, alle quali in parte ha già rinunciato in cambio di poltrone ministeriali. Il vero scandalo del nuovo governo però, non è tanto il primo ministro che paragona lo Stato all’azienda, ma i ministri le cui dichiarazioni spaventano. Come ad esempio quelle del neoministro della cultura Zlatko Hasanbegovic, ricercatore di storia (esperto di vittime del comunismo) e fervido sostenitore del revisionismo, che ha pubblicamente negato che l’antifascismo sia un valore costituzionale fondante, e nel passato si è già mostrato come cultore di Ante Pavelic (duce dalla Croazia tra il 1941–45) e nemico dei matrimoni gay. Il P.E.N. Croazia e l’Associazione dei giornalisti, hanno lanciato una sottoscrizione pubblica contro la nomina di Hasanbegovic, ma tutto è stato invano.
Secondo il ministro, l’unico valore fondante della Croazia sarebbe la guerra patriottica degli anni Novanta. Si tratta di un’idea condivisa dal neoministro dei veterani di guerra, il quale anche dopo aver assunto l’incarico, ha sostenuto l’idea di compilare e pubblicare un elenco di tutti i traditori degli interessi nazionali durante la guerra patriottica. Di fatto, un invito alla lapidazione pubblica dei “nemici della patria”. La proposta è ufficialmente osteggiata dal Petrov, ma delle sue dichiarazioni c’è poco da fidarsi, vista la repentinità con cui le cambia. Tutto questo avviene con la benedizione dai preti locali, chiamati dai neoministri a lavare con l’acqua santa i ministeri e a scacciare gli spiriti maligni dei precedenti inquilini.
Così, tra benedizioni, un premier non eletto e che non capisce molto della cultura del paese che è stato chiamato a governare, con appena 3 donne nel governo (di cui un’ex suora), e tra una kermesse di grida nazionaliste, la Croazia ha lanciato una sfida all’Ungheria di Orban per ottenere il primato del governo più a destra della regione.
Però, ciò che differenzia la situazione croata, è che la destra non ha vinto le elezioni, ma al potere è arrivata con l’aiuto di un gruppo di ex seminaristi e chierichetti, assai forti nelle comunità di provincia.
Se la democrazia è l’impegno di costruire una comunità politica tra cittadini con diverse idee, capaci però di convenire pur dissentendo, è evidente che la democrazia in Croazia è in pericolo. Inoltre, va ricordato che una delle promesse elettorali della destra era di assicurare le frontiere contro i flussi migratori. È evidente che qualora la promessa si realizzasse, le sue conseguenze sarebbero molto più ampie e riguarderebbero non solo la regione, ma la stessa Unione Europea.

il manifesto 27.1.16
Il paradigma di Lumumba
di Raffaele K Salinari

Storie. 55 anni fa veniva assassinato in Congo il primo capo di governo eletto democraticamente nel paese da poco indipendente, leader del panafricanismo e dell’Africa post-coloniale. Un delitto impunito - esecutori materiali i ribelli katanghesi, organizzatore Mobutu, logistica belga e statunitense -, emblema di tutti i massacri perpetrati quotidianamente sul corpo vivo di questa terra bella e terribile.
Nel gennaio di cinquantacinque anni fa, nel 1961, veniva assassinato Patrice Lumumba, il leader dell’Africa post coloniale che credeva in un «Congo unito all’interno di un’Africa unita».
Il Belgio, l’allora potenza coloniale, aveva “ereditato” questo enorme paese di più di due milioni e mezzo di chilometri quadrati dalle mani insanguinate del suo storico proprietario, Re Leopoldo II, che lo aveva rivendicato come proprietà privata durante la Conferenza di Berlino del 1883 in cui gli europei si erano spartiti l’Africa.
Il regno belga ne prevedeva l’indipendenza solo verso il duemila ed invece, spinto dall’onda lunga della decolonizzazione e dei movimenti di liberazione pan africani, anche il Congo si sollevò e, nel giugno del 1960, Re Baldovino dovette dichiararne l’indipendenza.
Decolonizzare il simbolico
Il giovane Lumumba, allora segretario generale del Movimento nazionale congolese di liberazione vinse le prime elezioni libere e democratiche venendo di conseguenza nominato capo del governo. La sua mossa politica fu quella far aderire la Repubblica del Congo al movimento dei «non allineati», sancendo così l’indisponibilità a far parte dell’equilibrio bipolare che la guerra fredda imponeva a tutti i nuovi stati.
Il suo discorso sulla «decolonizzazione del simbolico», mediato da Frantz Fanon, resta uno dei caposaldi del panafricanismo del secolo scorso. Queste posizioni sarebbero già state sufficienti a determinare le manovre che l’Occidente avevano predisposto per innescare la terribile guerra civile che, puntualmente, dopo qualche mese dall’insediamento di Lumumba, portò alla secessione del Katanga, la regione mineraria a sud del paese, ed anche alla ribellione del Kivu, quella al confine con Ruanda e Burundi.
I ribelli katanghesi, sostenuti dai servizi segreti di Stati uniti e Belgio, dopo mesi di attacchi ferocissimi in tutto il Paese e nella capitale Kinshasa, sequestrarono Lumumba in fuga verso il sud e lo uccisero; si saprà solo qualche anno dopo che il suo cadavere venne prima smembrato e poi sciolto nell’acido.
Ma la sua vicenda politica assume, prima del tragico epilogo, un respiro di livello internazionale: come capo di un Governo legittimo, infatti, Lumumba aveva chiamato in suo aiuto, primo leader nella storia africana, le Nazioni unite, per cercare di risolvere il conflitto secondo le nuove regole internazionali post belliche.
lumumba ricordo
Il ricordo a Kinshasa dell’assassinio di Lumumba (sullo sfondo la statua a lui dedicata)
Nella guerra civile congolese interviene dunque personalmente l’allora segretario dell’Onu Dag Hammarskjold che capisce la posta in gioco: la crisi del Congo era il primo vero banco di prova per un sistema Onu che avesse voluto realmente esercitare il suo ruolo di «governo del mondo». Proprio per questo, nel settembre 1961, l’aereo che lo portava in Congo per dirigere di persona la prima missione di pace delle Nazioni unite nell’Africa post coloniale (una vera missione di pace) viene sabotato dalla Cia e precipita. Il segretario generale muore, l’Onu si ritira, e così viene meno la possibilità che questo organismo multilaterale divenisse realmente ciò che doveva essere.
Dopo qualche mese di drammatica guerra civile, a cui partecipa anche Che Guevara, ucciso Lumumba e di conseguenza passato il pericolo di un Congo non allineato o, peggio, nelle mani dei sovietici, un tenente di nome Joseph Desiré Mobutu, già nominato capo dell’esercito da Lumumba, ma organizzatore del suo stesso assassinio su logistica belgo-americana, viene nominato capo dello Stato ed inaugura una dittatura cleptocratica e senza spazi democratici che morirà con lui dopo ben trent’anni dopo, lasciando il Paese in condizioni di estrema povertà e fragilità da tutti i punti di vista.
Il “giardino” di Leopoldo II
Fin dai tempi di Lumumba, infatti, ed ancora prima di Leopoldo II e del suo “giardino personale”, questa terra doveva essere solo una “estensione geografica” a disposizione degli interessi occidentali, senza riguardo alcuno alle opinioni dei suoi legittimi abitanti.
Ai tempi di Leopoldo II la “missione civilizzatrice” copriva il commercio dell’avorio, dell’oro e del legno pregiato, ne rende testimonianza il romanzo Cuore di tenebra di Conrad. Ai tempi della seconda guerra mondiale, invece, nel mirino dell’Occidente vi era qualcosa di ancora più importante (l’uranio delle bombe di Hiroshima e Nagasaki viene dal Katanga).
E poi, durante la lunga dittatura di Mobutu, era essenziale continuare ad assicurare alle compagnie minerarie lo sfruttamento dello “scandalo geologico” che rappresentano le sue enormi quantità di rame e diamanti e, più di recente, il coltan.
Perfino il successore di Mobutu, l’ex lumumbista Laurent Desiré Kabila, ripulito dagli americani dopo la morte del vecchio dittatore e sostenuto dai ruandesi del genocidario Paul Kagame (attuale presidente del Ruanda), quando ha cercato di rivedere i contratti di sfruttamento minerario ispirandosi alla sua antica visione socialisteggiante, è stato assassinato dal suo stesso figlio adottivo, l’attuale presidente del Congo Joseph Kabila.
Le vene aperte dell’Africa
Negli ultimi tempi, con la confusa gestione geopolitica della guerra civile permanente nell’est del paese, retaggio di quella prima guerra scatenata contro Lumumba dagli interessi Occidentali, si completa il quadro dell’asservimento di questa terra agli interessi delle “pompe aspiranti” occidentale, cinese, indiana, che continuano a prelevare dalle sue vene aperte il sangue che ci serve, mentre il Congo ed i congolesi letteralmente muoiono, o di fame, o di guerra o di Aids. Le organizzazioni umanitarie calcolano che ci sono circa quattro milioni di rifugiati interni ed un milione di vittime della guerra civile.
Se Foucault fosse vivo ne farebbe sicuramente un esempio della sua definizione di biopolitica e potere sovrano: «Non più esercitare la morte e concedere la vita ma sostenere la vita e lasciar morire».
Oggi, dunque, guardando in questa prospettiva l’assassinio di Lumumba, possiamo ben dire come esso sia solo un emblema, una immagine paradigmatica che racchiude in sé tutte le altre, tutti gli altri assassinii che, quotidianamente vengono perpetuati sul corpo vivo di questa terra bella e terribile.
Eppure, eppure, la forza della vita scorre ancora dentro il corpo martoriato del Congo, anche se il nostro sguardo spento non vede nell’Africa che morte e sfruttamento, lo sguardo fiero di Lumumba nella sua ultima immagine guarda ancora lontano, oltre il «cuore della tenebra».

il manifesto 27.1.16
Un’incoronazione equivoca
Storia. «Carlo Magno. Il barbaro santo» di Stefan Weinfurter, uscito per il Mulino. La biografia indaga le basi teoriche e morali del suo potere e il ruolo nella storia dell’Europa
di Marina Montesano

Tra le varie monarchie romano-barbariche, una era destinata a interessare particolarmente la Chiesa e a segnare profondamente la storia europea: quella franca. Fra V e VI secolo, in circostanze che la leggenda vuole miracolose, re e popolo franco si erano convertiti in massa al cattolicesimo abbandonando il culto pagano, e ciò in un momento in cui le altre monarchie romano-barbariche conoscevano una fase di adesione al cristianesimo attraverso la confessione ariana. I Franchi divennero allora i «figli prediletti della Chiesa». Nel corso del VI secolo il loro regno si era allargato su gran parte dell’attuale Francia, nella quale si potevano distinguere le regioni di Austrasia (nord-est), Neustria, Borgogna e Aquitania. I sovrani merovingi regnavano su una popolazione nella quale un ceto di proprietari terrieri ben armati, d’origine germanica reggevano le sorti di una popolazione d’origine gallo-romana che, specie nel Meridione del paese, continuava a vivere in città relativamente prospere. Tuttavia, la loro storia (delineata da Bernhard Jussen, I franchi, il Mulino, pp. 162, euro 14) difficilmente ci sarebbe parsa così di spicco se non fosse culminata nella monarchia e nell’impero di Carlo Magno. Sul personaggio negli ultimi anni (ma non solo, ovviamente) sono apparse diverse biografie; in Italia bisogna almeno ricordare quelle di Alessandro Barbero e di Franco Cardini, oltre a varie traduzioni.
Se ne aggiunge adesso una nuova: Stefan Weinfurter, Carlo Magno. Il barbaro santo, il Mulino, pp. 342, euro 25). Ritroviamo nel testo tutto quello che è lecito attendersi: un po’ di biografia tradizionale, le campagne militari, le riforme culturali, le basi teoriche, concettuali e morali del suo potere; e poi naturalmente il dibattito sul suo ruolo nella storia d’Europa: a partire dall’incoronazione imperiale. Elevato al soglio pontificio nel 795, Papa Leone III aveva chiesto protezione a Carlo contro l’aristocrazia romana che minacciava le sue prerogative; ma, siccome i Romani persistevano nel loro atteggiamento d’inimicizia nei suoi confronti, nel 799 si recò in Francia per chiedere un più energico sostegno. Carlo scese a Roma, in apparenza come mediatore; tuttavia, nella notte di Natale dell’800 assunse un equivoco titolo imperiale. Il papa lo incoronò, mentre la folla raccolta in San Pietro lo acclamava (l’acclamazione era un elemento giuridico importante nell’incoronazione imperiale fin dai tempi di Roma).
Il gesto del Natale 800 resta un enigma. Papa Leone aveva forse inteso ricompensare così chi lo aveva sostenuto; ma, con questo gesto, egli intendeva anche dichiararsi libero dalla tutela dell’imperatore bizantino? O addirittura rivendicare il suo diritto a disporre della corona imperiale, quindi a incoronare, ma anche – in caso di necessità – a deporre? Dal suo canto, l’aristocrazia romana rivendicava, con le acclamazioni, l’antico diritto del popolo romano a disporre dell’impero. Carlo, secondo alcune fonti, fu colto di sorpresa dalla situazione e mostrò sulle prime di non gradirla: certo, essa lo poneva in una situazione di obiettivo confronto con Bisanzio; d’altronde gli forniva un’autorità almeno morale sul suo popolo e sull’Occidente quale nessun re germanico aveva avuto fino ad allora.
Apparso in lingua tedesca nel 2013, viene ora tradotto con merito in italiano; operazione opportuna, vista la scarsa possibilità per i più di attingere all’originale. Bisogna dire che l’Italia resta uno dei pochissimi paesi al mondo nei quali si traduce la saggistica con una certa intensità; a giudicare dal pur ricco apparato di note del testo, per esempio, colpisce il fatto che Weinfurter abbia consultato molta storiografia tedesca, parecchia in inglese, pochissima in francese, e nulla in italiano. Forse il segno di un peso specifico non troppo elevato della nostra lingua e della nostra storiografia (però gli Atti dei Convegni spoletini sull’Alto Medioevo, almeno, sarebbero stati indispensabili), ma certo anche un segno preoccupante della scarsa volontà delle storiografie nazionali di guardare a un panorama più ampio. Il che, in tempi in cui si parla tanto di globalizzazione, lascia molto perplessi.