La Stampa 26.1.16
Shoah, l’incredulità dei bambini è più forte del male
di Gavriel Levi
Professore emerito Sapienza Università di Roma
La
memoria è un motore della individualità umana. Finché posso giocare con
i miei ricordi, scomponendoli e ricomponendoli, sento di essere una
persona.
La memoria condivisa è il collante di ogni relazione
umana. Finché so che tu ti ricordi di me e finché tu sai che io mi
ricordo di te, noi siamo noi. Siamo qualcosa in più.
La memoria è
il contenitore collettivo di ogni gruppo, piccolo o grande. Finché
scambiamo e confrontiamo ricordi comuni, possiamo pensare ad una storia
che sa usare i ricordi del passato per costruire un futuro comunque
migliore.
La potenza di tutte queste memorie sta nel riuscire ad essere memorie aperte. Sempre innovative e mai celebrative.
Possiamo
identificarci con le nostre foto di quando eravamo bambini, se sappiamo
che stiamo guardando con gli occhi di adesso. Possiamo comprenderci
meglio, se possiamo immaginare di guardarci adesso con gli occhi che
avevamo allora. Questo doppio confronto è emozionante, perché in fondo
in fondo è il confronto tra ricordare e progettare.
L’emozione del
ricordo che si rinnova e si confronta con altri ricordi è la stessa
emozione del sogno, che cerca sempre la strada per trasformare il
passato in una nuova realtà.
In sintesi: la memoria può essere maestra di libertà soltanto se non è una memoria prigioniera, perché dolorosamente ripetitiva.
Questo
discorso è particolarmente valido quando lavoriamo con la memoria
traumatica, con la memoria etica e con la memoria educativa.
Siamo davanti alla scommessa e alle domande che ci pone ogni anno la Giornata della Memoria.
Dopo
la catastrofe universale della Shoah, causata volontariamente dalla
mano dell’uomo, è possibile guardare dentro la malvagità umana? E cioè,
senza fuggire dichiarandoci subito buoni?
Dopo un trauma subito
quasi passivamente, è possibile usare la memoria attivamente? Per
documentare il trauma e non per fissarlo, per combattere il trauma
oggettivamente e non per riprodurlo soggettivamente.
Nel conflitto
quotidiano che ogni persona ha, quando deve scegliere tra bene e male, è
possibile costruire un patto educativo fra una generazione e l’altra?
Non
penso che queste domande debbano e possano avere una risposta. Credo
che queste domande debbano rimanere domande tanto inquietanti quanto
fiduciose. I superstiti della Shoah tuttora viventi hanno guardato in
faccia il male, allora, quando erano bambini. Con occhi di bambino.
Adesso i superstiti della Shoah ragionano e soffrono con la forza e con
lo sfinimento di una vita combattuta, per capire e contrastare
l’esistenza del male assoluto.
Allora guardavano e capivano il
male come i bambini guardano il dolore e l’ingiustizia: con lo stupore
assoluto e con il rifiuto più totale. Non è così, non può essere così,
non sarà cosi… un giorno sarò grande, non farò e non farò fare così…
Se
vogliamo comprendere e sgretolare il male della Shoah, forse possiamo
immaginare e introiettare quegli sguardi di bambini. Quell’incredulità
totale è veramente più forte del male, perché nasce dalla speranza e
dalla certezza che il male può non esistere. Non deve esistere.