Corriere 26.1.16
Shoah, memoria di ieri e impegno per il futuro
di Giovanni Maria Ficà
Il
«Giorno della Memoria», a quindici anni di distanza dalla legge del
2000 che lo ha istituito, è l’occasione per un bilancio. È certamente
positivo, con alcune perplessità in parte originarie e in parte dovute
al passare del tempo. Non si tratta di cambiare la legge, ma di
interpretarla perché possa cercare di rispondere agli interrogativi per i
quali è nata: che cosa, come e perché ricordiamo.
Ricordiamo
«l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz il 27 gennaio 1945», quando ad
essi giunsero i primi soldati russi che — racconta Primo Levi
all’inizio de La Tregua — incontrarono il nulla, gli spettri, la
vergogna, la fine dell’umanità. Ricordare la fine di Auschwitz è una
scelta: ma è altrettanto se non più giusto — anche se più difficile —
ricordarne le cause, le premesse e l’inizio. La legge richiama in
effetti «le leggi razziali» e «la persecuzione italiana dei cittadini
ebrei»: questa può e deve essere l’occasione per sfatare la leggenda
degli «italiani brava gente» che troppo spesso falsa la prospettiva
storica e dimentica le nostre responsabilità di italiani, individuali e
collettive. È doveroso ricordare i tantissimi che hanno subito la
deportazione e la morte e i pochi giusti che si sono battuti per la loro
salvezza: a patto però di non dimenticare i troppi carnefici e i
complici nelle deportazioni, ancor più numerosi per indifferenza, paura,
coinvolgimento burocratico, scopo di profitto o rancore nelle
deportazioni.
Come ricordiamo? Organizzando secondo la legge,
cerimonie, incontri nelle scuole, iniziative (come i viaggi degli
studenti ad Auschwitz). È necessario per tenere viva la memoria nel
cuore e nell’emozione; per evitare che la Shoah diventi soltanto
astratta nozione per la mente nei libri di storia. Ma occorre evitare
anche che con il passare del tempo e la ripetitività quel giorno si
trasformi soltanto in un’occa- sione rituale, retorica e celebrativa; in
una memoria burocratica e imposta, come la toponomastica stradale; o —
più ancora — che diventi soltanto un’occasione per operazioni
editoriali. È difficile distin-guere in concreto fra il fine della
conoscenza e quello del portafoglio: ogni contributo (libri, film) alla
prima è prezioso, per passare dalla conoscenza alla coscienza e per non
delegare soltanto alla legge e al giudice la risposta al negazionismo;
ma può rischiare l’assuefazione e quindi il rifiuto.
Perché
ricordiamo? La legge guarda al passato e al futuro: «conservare la
memoria di un tragico e oscuro periodo … affinché simili eventi non
possano mai più accadere». Non un risarcimento tardivo e insufficiente
al popolo ebraico, per la tragedia di cui è stato vittima; tanto meno —
come pretende il negazionismo, sia quello più becero che quello più
pretenzioso — una assurda connivenza con la bestemmia della «menzogna
ebraica» sulla Shoah o sulla sua enfatizzazione, una cambiale oscena per
la fondazione dello Stato di Israele; né un’inammissibile pretesto per
equiparare gli ebrei vittime del nazismo e i palestinesi, nonostante le
legittime riserve su taluni aspetti della politica repressiva
israeliana. Ma la consapevolezza che la Shoah è ammonimento per tutti
noi, più che memoria per gli ebrei; è un delitto incommensurabile contro
la dignità e l’umanità.
Il decorso del tempo e la cancellazione
delle tracce dello sterminio rischiano di far trascurare i sintomi
premonitori di altri stermini; se Auschwitz è stata il cimitero
dell’Europa di ieri, il Mediterraneo sta diventando il cimitero
dell’Europa di oggi e di domani. Per questo il Giorno della Memoria del
passato deve restare; ma deve diventare — effettivamente, non soltanto a
parole — anche il giorno dell’impegno per il presente e per il futuro.