La Stampa 24.1.16
Il fantasma di Hollywood
Un libro e un film rivalutano Dalton Trumbo Imprigionato durante il Maccartismo lo sceneggiatore scrisse sotto pseudonimo
di Mirella Serri
Deborah
Kerr, con l’aria paciosa e i capelli cotonati, nella notte degli Oscar
del 1957, proclama vincitore il film La più grande corrida per il
miglior soggetto originale di cui è autore Robert Rich. L’attrice rimane
però interdetta: sul palco non appare nessuno a ritirare l’ambita
statuetta per quella pellicola di gran successo. Il giorno dopo domina
le prime pagine la discussione sul «mistero-Rich». I produttori negano
di aver mai incontrato quello sceneggiatore-fantasma che ha lavorato
senza contatti diretti con loro.
Il mistero di Mr. Rich
Lo
strano caso di mister Rich è destinato a ripetersi di frequente e
nell’America degli Anni Cinquanta proliferano gli scrittori
cinematografici senza identità né volto: La legge del Signore, il bel
lavoro di William Wyler, appare privo del nome dello sceneggiatore nei
titoli di coda; Pierre Boulle viene incoronato dall’Oscar per
l’adattamento per lo schermo del suo libro, Il ponte sul fiume Kwai, ma è
noto che a confezionare il testo non è stato il narratore francese
digiuno della lingua inglese. A chi appartengono tutte queste penne
senza nome?
Carl Foreman e Michael Wilson sono in realtà gli
autori del famosissimo «Ponte» di David Lean, la scrittura della Legge
del Signore è sempre di Wilson, Rich è lo pseudonimo dietro cui si
nasconde Dalton Trumbo. Che peraltro ha avuto l’Oscar anche per il
soggetto del meraviglioso Vacanze romane, con Gregory Peck e Audrey
Hepburn, siglato però con un altro nom de plume, Ian McLellan Hunter.
A
raccontarci la vera storia di Trumbo, una delle più pagate e ricercate
firme di Hollywood, è il saggista Bruce Cook ne L’ultima parola (in
uscita da Rizzoli ). La biografia ha ispirato il film Trumbo che,
diretto da Jay Roach e interpretato da Brian Cranston, Diane Lane, Helen
Mirren e John Goodman, sarà nelle sale italiane a partire dall’11
febbraio. Nella pellicola viene ricostruita l’avventurosa vicenda dei
cosiddetti Hollywood Ten, ovvero dei dieci attori, scrittori,
produttori, registi - di cui Trumbo è uno degli esponenti di maggior
spicco - i quali a partire dal 1947 rientrano nella blacklist della
commissione maccartista incaricata di indagare sulle attività
antiamericane. In epoca di caccia alle streghe e di guerra fredda, con
il globo diviso tra America e impero del male, questi uomini di
spettacolo si rifiutano di compiere opera di delazione nei confronti dei
loro colleghi. Chi collabora, come Jack L.Warner, capo della Warner
Brothers, Gary Cooper, Robert Montgomery, Ronald Reagan (futuro
presidente degli States) e Robert Taylor, viene scagionato. Chi si
sottrae, invece, ha davanti il carcere: tra gli accusati, insieme ai
magnifici dieci, c’è anche Bertolt Brecht che ribatte alle accuse in
maniera così convincente da sfuggire alla citazione per vilipendio al
Congresso. Poi però scappa subito dagli Usa per approdare nella Germania
dell’Est, finendo dalla padella nella brace.
Nella lista nera
Trumbo
è arrivato nel paradiso degli Studios facendo la gavetta. Intollerante,
gran bevitore, non è uno dei tanti «comunisti da piscina», come vengono
chiamati gli esponenti dell’intellighenzia di sinistra. Ha lavorato
tutte le notti come panettiere crollando con la testa sui libri della
University of Southern California, ha sfondato come reporter per il
Grand Junction Sentinel, il quotidiano della sua città, e poi ha avuto
successo a Hollywood.
Quando la commissione lo interroga sui suoi
legami con il Partito comunista, si appella al diritto di non
rispondere: in aula al suo fianco vi sono Humphrey Bogart, Lauren
Bacall, Gene Kelly, John Garfield e John Huston. Ma il sostegno delle
grandi star non basta. Viene condannato a 11 mesi di galera. Dalton è
accompagnato dai suoi estimatori come un eroe ai cancelli del
penitenziario federale di Ashland, Kentucky. Ma quando esce la
propaganda contro i sovversivi ha convinto gran parte della pubblica
opinione che è un «losco traditore» assieme a tutta la sua famiglia. Le
porte di Hollywood per lui sono sbarrate. È costretto a rifugiarsi in
Messico dove, offrendo le sue prestazioni in nero e nel più completo
anonimato, produce addirittura più di trenta copioni. Ma nel 1960 il
regista Otto Preminger compie un gesto eclatante: rivela che Trumbo è
stato incaricato della sceneggiatura di Exodus, tratto dal romanzo di
Leon Uris che prende il nome dalla nave che nel 1947 porta in Israele un
numeroso gruppo di immigranti. Il desiderio di verità e di giustizia si
sta facendo strada: Kirk Douglas rende noto che Spartacus, con la regia
di Stanley Kubrick, ha avuto origine dalla magia di Trumbo. La reazione
degli attivisti non si fa attendere: gruppi di manifestanti
anticomunisti organizzano picchetti in tutti gli States per impedire
l’ingresso nelle sale dove viene proiettata la pellicola.
L’apprezzamento di JFK
Il
clima però sta cambiando e non c’è più spazio per gli adepti di Joseph
McCarthy. A dare la spallata definitiva ai fanatismi è il neoeletto John
F. Kennedy: superando gli sbarramenti entra in un cinema di Washington
dove si proietta Spartacus. «Un bel film», commenta all’uscita. Il suo
giudizio pone fine a tutte le ostilità. Da quel momento Trumbo è
riaccolto nella Mecca del cinema e può riprendere apertamente la penna
in mano. Ultima sceneggiatura, prima della sua scomparsa nel 1976, sarà
Papillon in cui presta pure il suo volto ad un arcigno ufficiale. Lo
sdoganamento di Trumbo rappresenta non solo la sua personale
riabilitazione ma la fine dell’era della caccia alla streghe e dei
fantasmi dello schermo.