venerdì 22 gennaio 2016

La Stampa 22.1.16
Con i bus fino al confine con la Siria
Così la Turchia caccia indietro i profughi
Umiliazioni e violenze nei “centri di accoglienza” prima del foglio di via
di Giovanna Loccatelli

Detenzione segreta e deportazione in zone di guerra: sono le accuse lanciate da Amnesty International Turchia e dal Centro siriano sulle violazioni dei diritti umani contro il governo di Ankara per il trattamento dei migranti in fuga dalla Siria. Molti di questi vengono salvati nei naufragi dell’Egeo – ieri Ankara ha detto di aver recuperato 90 mila naufraghi nel 2015 – per finire poi in centri di detenzione vera e propria. Le accuse arrivano mentre la Ue stanzia 3,2 miliardi di euro per aiutare la Turchia nella gestione dei profughi. Che non hanno scelta. Detenzione illimitata o deportazione in Siria, nelle zone di guerra da cui poco prima, settimane o mesi, sono fuggite. Racconta una rifugiata di 23 anni, proveniente da Hama, che gli agenti del centro di Düziçi le avrebbero detto: «O ritorni in Siria o rimani in prigione: queste sono le uniche opzioni che hai!». Sempre a Düziçi, a un’altra donna siriana, originaria di Idlib, con quattro figli a carico, di 12, 10, 8 e 3 anni, è stato ordinato di firmare un ritorno obbligatorio in Siria: una lettera, scritta in turco, che nessuno le ha tradotto. Le autorità presenti, recita il report di Amnesty, le avrebbero detto: «Non te lo traduciamo! O firmi o rimani qui». L’unica frase in arabo, alla fine del documento, dice: «Ritorno in Siria per mia decisione».
«Molti rifugiati siriani che arrivano in Turchia vengono fermati e spediti in una ventina di centri di detenzione», dice Andrew Gardner, responsabile Amnesty International. La permanenza in questi luoghi varia da qualche settimana a tre mesi. Sono i centri di Düziçi, di Erzurum, di Kumkapi a Istanbul e di Edirne quelli più attivi.
Un uomo di 40 anni ha raccontato che a Erzurum è stato rinchiuso da solo in una cella per sette giorni con mani e piedi legati al letto: «Quando ti mettono le catene ti senti uno schiavo, non più un essere umano». I maltrattamenti riguardano sia gli uomini sia le donne, indifferentemente. Tre donne, due siriane e una marocchina, hanno riferito che - sempre a Erzurum - sono state obbligate a spogliarsi e sono state perquisite da agenti uomini. Hanno ceduto quando gli agenti le hanno minacciate dicendo loro che sarebbero rimaste recluse nel centro «finché non lo farete».
A chi, come a un siriano di 43 anni di Afrin, chiede l’assistenza di un avvocato gli agenti hanno risposto che «la legge turca non lo consente».
Secondo Andrew Gardner si tratta di veri e propri «sequestri»: «I rifugiati siriani - uomini, donne e bambini - che vengono portati in questi centri non possono telefonare a nessuno: né avvertire i familiari né chiamare un legale». La preoccupazione è che i casi documentati siano solo la punta di un iceberg. «Da settembre a dicembre 2015 sono state segnalate centinaia di storie. Si conoscono, però, unicamente quelle che siamo riusciti a verificare. Probabilmente il numero di deportazioni è enormemente maggiore».
La deportazione avviene trasportando i siriani in autobus dal centro di detenzione di Erzurum fino al valico di frontiera di Cilvegözü nella provincia di Hatay, controllato dal lato siriano dal gruppo armato Ahrar al Sham. Qui i profughi vengono letteralmente scaricati. E abbandonati a loro stessi. Solo tra il 17 novembre e il 20 novembre del 2015 più di 100 persone sarebbero state deportate in Siria in questo modo. Anche il Centro siriano sulle violazioni dei diritti umani ha evidenziato le stesse violazioni da parte turca. «Ho molti casi documentati che attestano le deportazioni forzate», spiega Ayman, membro dell’Organizzazione. «I centri di detenzione – aggiunge – sono vere e proprie carceri. Da lì molti vengono forzatamente rispediti in Siria».
Il governo di Ankara risponde alle accuse in modo secco: «Se alcune persone preferiscono tornare in Siria, Il governo turco non può trattenerle». Resta da capire come mai intere famiglie sfidino la guerra e i miliziani dell’Isis per raggiungere la Turchia e una volta in «salvo» decidano di tornare volontariamente da dove erano venute.