venerdì 22 gennaio 2016

il manifesto 22.1.16
La seconda rivoluzione tunisina
Da Kasserine a tutto il Paese. Si allarga velocemente la rivolta partita dopo l’ennesimo sopruso su un giovane disoccupato. E tornano le parole d’ordine di cinque anni fa: lavoro, libertà, dignità. Perché la transizione fin qui ha molto deluso
A Tunisi la protesta torna in avenue Bourghiba
© LaPresse
Giuliana Sgrena
Edizione del
22.01.2016
Pubblicato
21.1.2016, 23:59
A cinque anni dalla rivoluzione che aveva contagiato molti paesi arabi, la Tunisia torna a infiammarsi. Le immagini che arrivano da Sfax, dove un giovane commerciante mercoledì si è dato fuoco dopo che la sua merce era stata confiscata dalle autorità, ci ripropone l’immolazione di Bouazizi, avvenuta a Sidi Bouzid il 17 dicembre 2010.
La protesta è partita questa volta da Kasserine, nel centro della Tunisia poco lontano da Sidi Bouzid, dopo che un ragazzo di 24 anni, Ridha Yahyaoui, che minacciava di suicidarsi perché il suo nome era stato cancellato da una lista di assunzioni, salendo su un palo della luce era rimasto folgorato. Una protesta per l’ennesimo sopruso si trasforma in un’ondata di rivolte che si sta estendendo a tutto il paese: Gafsa, Jendouba, Touzeur, Gabes, Medenine, fino a Tunisi. Ovunque la polizia reprime, ma anche un poliziotto è rimasto ucciso negli scontri dei giorni scorsi. Tornano con forza le parole d’ordine di cinque anni fa: lavoro, libertà, dignità. Perché sebbene la transizione sia ancora in corso è troppo lenta e non sembra andare nella giusta direzione. Dopo cinque anni la delusione è molto forte, soprattutto nei giovani. «È tempo di agire. O niente potrà impedire lo scoppio di una seconda rivoluzione», ha detto il presidente Beji Caid Essebsi, il 17 dicembre, quinto anniversario dell’inizio della rivoluzione.
Sta per scoppiare una seconda rivoluzione? Le manifestazioni a Tunisi sono tornate a occupare gli spazi di quelle del 2011, soprattutto la centrale avenue Bourghiba, davanti al ministero dell’interno, simbolo della repressione ai tempi di Ben Ali. Ora la situazione è diversa e le rivendicazioni esprimono il grande disagio sociale. La richiesta principale riguarda il lavoro – sono 800.000 i disoccupati, il 36% diplomati e laureati – e «noi ci rifiutiamo di emigrare o di finire nella rete dei terroristi o del contrabbando», sostiene un esponente dell’Unione dei diplomati disoccupati (Ucd), citato dal quotidiano tunisino La Presse. Precisazione non superflua essendo i tunisini – 5.500, secondo l’Onu – il contingente più numeroso di combattenti stranieri in Siria.
La manifestazione di mercoledì a Tunisi è stata organizzata dall’Ucd e dall’Unione generale degli studenti (Uget, di sinistra), che prende di mira il governo. «Il primo ministro Habib Essib ha due scelte possibili. O trova una soluzione urgente ed efficace al problema della disoccupazione o se ne va». Finora le manifestazioni non sono state indette da partiti e i partecipanti preferiscono mantenerli alla larga, anche se si temono infiltrazioni di militanti islamisti.
Le rivendicazioni chiamano in causa direttamente il governo. Anche se il primo ministro Essib si trova a Davos, mercoledì sera i ministri si sono incontrati con i rappresentati di Kasserine per varare alcune misure urgenti che sono state annunciate ieri dal portavoce Khaled Chouket. «Per quanto riguarda la disoccupazione: abbiamo deciso l’impiego di 5 mila disoccupati attraverso nuovi meccanismi di assunzione. Altri 1.400 saranno assunti attraverso i meccanismi esistenti e 500 con piccoli progetti finanziati dalla Banca nazionale di solidarietà con 6 milioni di dinari (circa 3 milioni di euro)». Chouket ha anche annunciato la formazione di un comitato nazionale che investigherà su casi di corruzione prendendo le misure necessarie per combatterla. Saranno privatizzate terre del demanio. Il portavoce del governo ha riconosciuto che molti progetti d’infrastrutture sono bloccati e ha annunciato altri nove progetti per la ricostruzione di ponti, strade etc. Saranno stanziati anche 135 milioni di dinari per la costruzione di case popolari nella regione di Kasserine.
Evidentemente le proteste hanno scosso il governo. Se queste promesse saranno mantenute e funzioneranno saranno un inizio, tuttavia non è solo Kasserine a soffrire del mancato sviluppo e della crisi. L’economia ristagna, la crescita nel 2015 è dello 0,5%. Il presidente aveva proposto una «riconciliazione economica» che avrebbe sospeso tutti i procedimenti contro esponenti del regime di Ben Ali per malversazioni, per favorire gli investimenti. Ma per molti tunisini questa legge, non ancora votata, è una sorta di riciclaggio della corruzione, senza contare che le reti dell’ex partito unico Rcd non sono state smantellate e si sono ricostruite dentro il partito Nidaa Tounes, che ha vinto le elezioni (politiche e presidenziali) del 2014. Anche gli islamisti che occupavano posti nelle istituzioni sono rimasti al loro posto.
Nidaa Tounes attraversa una grave crisi, che il presidente Essebsi ha aggravato nel recente congresso del partito, che aveva fondato nel 2012, nominando nuovo leader suo figlio Hafed. I metodi autoritari evidentemente non sono cambiati. Nidaa Tounes, partito laico di centro, aveva vinto le elezioni proprio perché rappresentava un argine contro gli islamisti di Ennahda e invece ora governano insieme. Non solo. aveva ottenuto 86 seggi contro i 69 degli islamisti, ma dopo l’uscita dal partito di una ventina di deputati dissidenti – che ritengono l’accordo un tradimento degli elettori – Ennahdha torna ad essere primo partito. Tuttavia mantenendo un basso profilo, cercando di accreditare un’immagine più moderata, mettendo la religione in secondo piano. L’impressione è che stia dissanguando Nidaa Tounes e preparando una vendetta, ma come si dice «la vendetta è un piatto che si serve freddo».
Repubblica 22.1.16
Tunisia
Tra i giovani di Kasserine “Tradite le promesse ora un’altra Primavera”
Cinque anni dopo la caduta di Ben Ali, la morte di Ridha ha provocato nuove tensioni nella città culla della rivolta. Il sogno è un lavoro dignitoso. Il governo ha garantito nuovi impieghi, ma nessuno ci crede: “Perché dovremmo dire no all’Is?”
di Giampaolo Cadalanu

KASSERINE (TUNISIA). Quando il ragazzo con il giubbotto blu sale sulla balaustra del primo piano, la folla al governatorato di Kasserine grida di orrore. Il giovane ha in mano una bottiglia di alcol, fa in tempo a rovesciarsene metà sul cappelletto lavorato a maglia e sulle spalle, poi una mano gliela spinge via, un’altra gli strappa l’accendino, braccia disperate gli impediscono di buttarsi. «Non cambia nulla, sono già morto», grida il ragazzo, avvinghiato a una colonna. Poi gli amici riescono a tirarlo giù, lo portano via.
Nel cortile, in mezzo alla gente attonita, c’è anche il padre di Ridha Yahyaoui, il ventiseienne fulminato dall’alta tensione la settimana scorsa mentre minacciava di buttarsi assieme ad altri disoccupati. L’uomo stringe sotto braccio il ritratto del figlio, quasi nascosto perché, dice, non vuole causare ancora disordini. Ma la rabbia di Kasserine non ha bisogno di nuovi stimoli. Altri disoccupati tentano di darsi alle fiamme davanti agli uffici delle autorità locali, la sera si replica il copione degli scontri: sassate e lacrimogeni nel cortile del governatorato, copertoni incendiati nel crocicchio della piazza centrale. E il fuoco della contestazione si propaga a Jendouba, a Beja, a Skhira, a Sidi Bouzid, lambendo persino il centro della capitale. I feriti sono decine, un poliziotto resta ucciso.
Nell’angolo più sfortunato della Tunisia il tempo sembra tornato a prima del 2011. Sono passati cinque anni dalla fuga di Ben Ali e la prima rivolta della Primavera araba, l’unica scampata al fondamentalismo, rischia di tornare al punto di partenza. Il tema delle rivendicazioni è sempre il sogno di un lavoro dignitoso. La disoccupazione è sopra il 15 per cento, in provincia supera il 30. Così anche il luogo del malcontento è lo stesso, il centro sottosviluppato del paese. Ieri era la Sidi Bouzid che ha visto il sacrificio di Mohamed Bouazizi, oggi la Kasserine del martire Rizha.
Qui gli ulivi lasciano il posto a fichi d’India e agavi, quasi a togliere ogni illusione sulla generosità della terra. Le rovine romane di Sbeïtla parlano di grandiosità, ma suggeriscono solo rimpianti. Sui muri di periferia, la scritta in inglese “We are the revolution”, la rivoluzione siamo noi, sbiadisce. E dopo la speranza, la delusione è più amara. Munir scoppia in singhiozzi mostrando i curricula dei cinque figli: «Ho cucinato il pane per trent’anni, per farli studiare. E devo continuare, perché sono l’unica a guadagnare». A due passi dal blindato con i soldati che controllano l’accesso, sul cancello c’è una scritta che recita: «Kasserine — Un potenziale enorme e multiple opportunità di investimento». Pochi ci credono, fra i 5mila arrivati dalle sette del mattino al governatorato, con certificati, fotocopie e illusioni. E la richiesta diventa protesta, con gli slogan di cinque anni fa: «Dégage!», vattene! O: «Il popolo vuole un’altra rivoluzione, un’altra primavera».
Il governatore si è asserragliato nel suo ufficio, militari in mimetica e giubbotto antiproiettile controllano i dimostranti. Lo ha ribadito il presidente Beji Caïd Essebsi: il diritto a manifestare è sacro e va tutelato. Ma ci vuole pazienza. Dopo la morte del giovane Yahyaoui, il governo ha promesso cinquemila impieghi pubblici per la gente di qui. Fra i senza lavoro nessuno ci crede: molti sarebbero “regolarizzazioni” di persone già impiegate, o lavori con un salario mensile da fame: 150 dinari, meno di 75 euro. Per ora l’impegno è poco specifico, ma si parla di aiuti a nuovi progetti economici. Sarebbe perfetto per Moncef, cinquantenne piccolo editore, che ha chiuso per mancanza di credito. Lui non si illude: «Non so più che fare. Sono pronto a rinunciare alla cittadinanza tunisina». Si contano gli anni di disoccupazione, per lo più in doppia cifra. Una madre si lamenta: se le cose stanno così, perché i ragazzi dovrebbero dire di no al terrorismo? Stando ai media tunisini, l’appello dell’integralismo funziona: sarebbero sette i giovani arrestati mentre salivano sul monte Chaambi, roccaforte jihadista, pronti ad “arruolarsi”.