giovedì 21 gennaio 2016

La Stampa 21.1.16
La Tunisia torna nelle piazze
“Per il pane, non per la libertà”
Scontri a Kasserine e Tunisi: “Lavoro o salta tutto”
di Francesca Paci

«La rivoluzione del 2011 ci ha portato solo il pluralismo, la libertà di criticare i politici senza finire in cella e una certa distanza di sicurezza dalla polizia che non ci tartassa più come prima». Solo? Salma Kebayer, in sit-in davanti al Parlamento, fa spallucce: i diritti non bastano. Come una trentina di persone intorno a lei brandisce la foto del disoccupato 28enne Ridha Yahyaoui, morto fulminato sabato sul palo dell’alta tensione da cui voleva gettarsi per non essere rientrato nelle nuove assunzioni del governatorato di Kasserine. La misura è colma, dice: «Il lavoro non c’è, la rabbia cresce, un altro ragazzo si è appena dato fuoco a Sfax immolandosi come Mohamed Bouazizi 5 anni fa. Ma se si tornasse in piazza oggi sarebbe per il pane e la violenza dilagherebbe incontenibile».
La Tunisia ha appena finito di celebrare l’anniversario della cacciata del dittatore Ben Ali e alle fanfare si sovrappone già l’urlo della strada che non fa mistero di rimpiangere i vecchi tempi. Secondo uno studio dell’International Republican Institute il pessimismo sulla situazione economica del Paese è ai massimi storici dal 2011 e il 56% preferisce la prosperità alla democrazia.
«Siamo molto preoccupati, sebbene governo e parlamento si diano da fare gli investimenti stranieri restano lontani, il turismo non riparte e il terrorismo picchia duro» ammette una fonte diplomatica europea. Dietro le quinte del governo, fresco di un rimpasto che in Occidente definiremmo dialettica politica ma in Tunisia aggiunge ordigni al campo già minato, si trovano conferme: gli aiuti promessi dal G20 nel 2011 sono rimasti lettera morta, le sole somme cospicue incassate portano l’intestazione fatale del Fondo Monetario Internazionale e pare che il ministro delle finanze Chaker abbia confidato ai suoi di aver bisogno di 5 miliardi di dollari l’anno per evitare la bancarotta.
Pur avendo navigato con maestria nella dura transizione che vede l’Egitto in alto mare (il think tank tedesco Friedrich Naumann Foundation ha deciso di lasciare il Cairo su pressione delle autorità locali), la Tunisia è tutto fuorché in salvo.
Per le strade della capitale le ragazze più appariscenti vanno a braccetto con quelle velate che pur essendo oggi di libere di coprirsi non sono aumentate di numero. I tre micidiali attentati del 2015, al Bardo, a Sousse e alla guardia presidenziale, sono stati la sveglia: ora che, per paura di aver «debenalizzato» troppo presto, sulla poltrona di direttore della sicurezza nazionale è stato rimesso quell’Abdelrahman Hadj Ali già in carica sotto l’ex dittatore, basta lasciare l’auto in doppia fila all’aeroporto 5 minuti perché venga rimossa. I Fratelli Musulmani che qui si chiamano Ennahda sono rimasti fedeli al passo indietro fatto alla fine del 2013 e moschee problematiche come quella salafita di al-Fatah hanno lo stigma sociale. La Costituzione poi, è l’emblema del dialogo che è valso al quartetto della società civile il Nobel per la Pace.
Eppure, dice lo scrittore e attivista Walid Soliman osservando le proteste dilagate in queste ore da Kasserine a Tunisi a Sidi Bouzid con lancio di pietre e decine di feriti, la gente è stanca: «Avremo bisogno di 10 anni ma con la disoccupazione che continua a salire basta una scintilla perché salti tutto». Alle sue parole fanno eco quelle amare dell’insegnante 45enne Neji (500 dollari al mese, 50 più di quanto serve per far vivere la famiglia) in un caffè della periferia Mauza neuf: «Pochi giorni fa la madre e la sorella di Mohamed Bouazizi sono emigrate in Canada: bella famiglia, ci ha messo in questo casino e se ne va».