La Stampa 21.1.16
Democrazie liberali in crisi di fiducia
di Giovanni Sabbatucci
I
quaranta capi di Stato e di governo che si incontrano oggi a Davos per
discutere – questo il programma – sul futuro della «quarta rivoluzione
industriale» dovranno in realtà affrontare un quadro della situazione
mondiale tutt’altro che tranquillizzante, e non solo sul piano
economico. I crediti deteriorati e le sofferenze bancarie, lo spettro
della deflazione, il crollo del prezzo del petrolio e le Borse a picco,
la Cina che rallenta la sua corsa e i contrasti sempre più aspri fra i
partner dell’Unione europea.
E poi la congenita debolezza delle
democrazie occidentali nel confronto con i ricchi e potenti regimi
autoritari dell’Est. Le turbolenze di queste ultime settimane ci dicono
che la crisi recessiva scoppiata nel 2007-2008 non è affatto finita,
anche se ha forse superato la sua fase più acuta: anzi minaccia di
eguagliare per durata la Grande Crisi per antonomasia: quella esplosa
nell’ottobre 1929 col crollo azionario di Wall Street e protrattasi per
tutto il decennio successivo, fino a confluire nel gran fiume infernale
della seconda guerra mondiale.
Le due crisi sono molto diverse per
le cause che le hanno originate, per i metodi usati per combatterle e
anche per le conseguenze che hanno provocato (l’attuale, per quanto
drammatica, non ha finora suscitato, almeno in Europa e negli Usa,
guerre e tragedie sociali paragonabili a quelle degli Anni Trenta). Ma
un tratto comune c’è di sicuro, e propone un parallelismo inquietante.
Oggi come allora, la crisi, man mano che si prolunga, incrina
gravemente, assieme alle aspettative di benessere dei cittadini, anche
la loro fiducia nelle istituzioni democratiche e rappresentative. Più
esattamente in quella forma istituzionale, sempre più largamente
praticata nel mondo occidentale, che siamo abituati a chiamare
«democrazia liberale»: in estrema sintesi, il suffragio universale e la
rappresentanza parlamentare combinati con la distinzione fra i poteri e
il rispetto dei diritti fondamentali.
La democrazia così declinata
si presenta spesso in forma ibrida e imperfetta. Del resto non è stata
mai compiutamente teorizzata – diversamente dalla dottrina liberale, da
Locke e Montesquieu in poi – e non è stata (salvo forse che nei Paesi
anglosassoni) oggetto di adesione fideistica e di rappresentazione
mitografica, come era invece la democrazia giacobina o mazziniana, che
però liberale non era e si presentava come l’instaurazione del regno
della virtù. La democrazia liberale non ha mai promesso il paradiso in
terra: si è affermata piuttosto come il regime della normalità e del
pragmatismo, come un sistema di regole volto a sostituire il conflitto
armato per il potere con la pacifica rappresentazione del conflitto
attraverso lo strumento delle libere elezioni. Ma questa sua apparente
carenza di valori forti, questa sua inevitabile permeabilità ai fenomeni
corruttivi hanno suscitato moti di delusione anche violenti, ai quali è
sopravvissuta – nella belle époque come nell’«età dell’oro» del secondo
dopoguerra – grazie alla sua capacità di abbinarsi col benessere
diffuso e col progresso materiale.
Non stupisce allora che in
tempi di crisi economica quella normalità si incrini, che i cittadini
tendano ad attribuire la responsabilità delle loro traversie non solo ai
partiti e ai governi, ma anche a istituzioni ritenute troppo deboli e
incapaci di tutelare i loro valori e i loro interessi. E comincino a
guardare con qualche interesse agli esempi degli Stati autoritari che
promettono ordine ed efficienza. Così accadde nei terribili Anni Trenta,
quando i regimi comunisti e nazifascisti esercitarono su larghe fette
delle opinioni pubbliche un fascino oggi difficilmente spiegabile. Ora
le cose stanno diversamente: perché la storia non si ripete mai negli
stessi termini; e perché quei regimi l’Europa li ha già conosciuti. E
sono tutti finiti molto male.
Ma ciò non esclude che i delusi e i
pessimisti possano rivolgersi (sta già accadendo in Europa orientale) a
modelli di autoritarismo più blandi, considerati di successo, come Cina e
Russia. O che, al contrario, cerchino soluzioni diverse in movimenti di
tipo nuovo, accomunati, al di là delle differenze ideologiche, dalla
contestazione delle forme tradizionali di rappresentanza e dalla
tendenza a proporre soluzioni semplicistiche ai problemi più complessi.
Per la vecchia, e tuttora insostituibile, democrazia liberale, si
annunciano ancora tempi difficili.
Con questo articolo Giovanni Sabbatucci, storico e docente universitario, comincia la sua collaborazione con «La Stampa».