La Stampa 20.1.16
Quando il dottor Mengele operava a Manhattan
In La bambina numero otto, la storia dell’asilo ebraico dove si compivano crudeli esperimenti sui bambini
di Mirella Serri
«Che
meraviglia le scoperte della scienza!»: il dottor Hess è un sostenitore
del progresso. Ma per fare passi da gigante nella ricerca bisogna
tentare tutte le strade, anche quelle che è meglio non rivelare. No, non
siamo in un lager del Reich negli anni Quaranta ma all’inizio degli
anni Venti all’Hebrew Orphan Asylum di New York. A rivelarci per la
prima volta la sperimentazione sui bambini di pratiche «scientifiche»
così orribili da togliere il fiato, è la scrittrice Kim van Alkemade che
nel suo esordio narrativo, La bambina numero otto (DeAgostini), mescola
fiction e realtà.
Per rimettere insieme i tasselli della vita di
suo nonno Victor Berger, il «ragazzo tuttofare dell’orfanotrofio», la
van Alkemade era sulle tracce della bisnonna Fannie, madre di Victor.
Abbandonata dal marito, Fannie era riuscita a ottenere un impiego presso
il ricovero infantile nel Lower East Side di Manhattan, con l’incarico,
non proprio gradevole, di rapare i neoarrivati come profilassi contro i
pidocchi. Ed aveva fatto accogliere insieme agli altri 1200 ospiti
anche i suoi figli.
Frugando nei registri delle spese della
benemerita istituzione, la romanziera ha individuato voci che andavano
dai 200 dollari (corrispondenti a circa duemila attuali) per feste e
maschere, ai 3.500 dollari per strumenti musicali. Normale
amministrazione. Però c’erano anche note singolari: come quella
riguardante l’acquisto di otto parrucche per ragazzini. Come mai erano
così numerosi i fanciulli senza capelli? Sulle tracce di quelle
parrucche la van Alkemade ci racconta le vicissitudini delle minuscole
vittime dell’Hebrew Orphan Asylum. Per acquistare fama e gloria il
dottor Hess - a cui i quattrini non mancavano poiché era sposato la
figlia di Isidor Straus, il fondatore di Macy’s, scomparso con la moglie
nel naufragio del Titanic - cominciò a sperimentare la tonsillectomia
con i raggi X. I piccoli ne ricavarono danni irreversibili: ustioni,
allergie, eritemi, predisposizione ai tumori, la perdita di sopracciglia
e delle chiome. La cosa sorprendente è che il dottore fu considerato a
lungo un benefattore: il New York Times, per esempio, lo lodò per il
«reparto di isolamento» ideato per i malati e costruito con pareti di
vetro «in modo che né gli infermieri né i dottori fossero costretti a
visitare i piccoli pazienti troppo di frequente». Le povere creature che
nell’istituto si beccavano le malattie infettive, dal morbillo alla
pertosse, venivano monitorate da lontano, come pesci in un acquario. Il
medico e il suo staff spargevano le infezioni anche ad arte. Per curare i
danni dello scorbuto si rendevano macilenti i corpicini con una dieta
ad hoc, senza frutta o verdura. Il vaccino della poliomielite veniva
testato su ragazzi sani.
Il principio in nome del quale venivano
inflitte tutte queste torture? «Meglio sacrificarne qualcuno per
salvarne molti», sosteneva Hess. Negli anni Venti insomma si
cominciavano ad avviare quegli audaci «esperimenti scientifici» che poi
sarebbero stati praticati su tanti altri ragazzini, ebrei e non solo.
Un’immagine del Hebrew Orphan Asylum di New York nel 1914