La Stampa 20.1.16
Draghi e Renzi
Due visioni diverse dell’Unione
di Stefano Lepri
Divergono
assai, la visione che dell’Europa ha Matteo Renzi e quella che ne ha
Mario Draghi. Dentro a questa contrapposizione tra i due principali
italiani del continente si legge in modo esemplare una difficoltà che è
di tutti. L’impazienza del primo conquista la scena proprio quando il
sapiente gradualismo del secondo è forse vicino ai suoi limiti.
In
questo inizio d’anno in cui l’intero pianeta sembra debba rassegnarsi a
una ripresa economica fievole, se non temere una nuova ricaduta, è
naturale mettere in questione i rimedi pazienti (lo stesso governo
italiano si trova in difficoltà sulle banche non perché non ha agito, ma
perché non l’ha fatto abbastanza in fretta).
Draghi è stato
definito «il primo degli europeisti». Come capo dell’unica istituzione
davvero federale, ha tutto l’interesse che il processo di unione vada
avanti. Dopo aver salvato l’euro nel 2012, un anno fa è riuscito ad
adottare potenti misure di espansione monetaria che la Bundesbank voleva
impedire. I risultati sono buoni - in Italia credito meno caro di 1,2
punti per le imprese, 0,5% di maggior crescita del Pil nel 2015 - eppure
non sufficienti.
Nel mondo si discute se per ottenere una valida ripresa basti la sola azione delle banche centrali.
Nell’area
euro per giunta la Bce è intralciata dai contrasti degli interessi
nazionali, soprattutto delle lobby finanziarie. Contro i tassi di
interesse a zero non combattono solo le banche tedesche, perché non ci
guadagnano; ora, pare, anche quelle francesi.
Fin qui, Draghi ha
avuto sostegno da Angela Merkel, a dispetto di molti in Germania. Ora i
due appaiono «leidgenossen», ovvero compagni di sventura: la cancelliera
sotto attacco della destra politica a causa dei migranti, l’italiano di
Francoforte sotto attacco della destra economica perché le sue scelte
monetarie gioverebbero soltanto ai Paesi deboli.
Si vede bene uno
scarto tra quanto sui pericoli del momento affermano Draghi e i membri
del direttivo a lui vicini, il belga Peter Praet e il francese Benoît
Coeuré, e le fiacche decisioni prese dal consiglio Bce nel suo insieme.
Serve tempo per comporre i dissensi. Nuove misure espansive arriveranno
non prima di marzo, il loro effetto sarà lento.
Renzi, per parte
sua, si è convinto che l’Italia non può più aspettare. La stessa
confusione che mette in difficoltà i tecnici – litigio di tutti contro
tutti sui profughi, Spagna senza governo, Francia incapace sia di
guardare oltre i propri confini sia di riformarsi davvero, paura del
terrorismo – eccita il suo azzardo politico. Dato che nessuno è capace
di guidare, tanto vale alzare la voce.
La questione da porsi è se
davvero le regole europee ci impediscono di fare qualcosa che, da soli,
faremmo meglio. Sulle sofferenze bancarie la Commissione di Bruxelles ha
sgradevolmente ecceduto, tuttavia non è priva di ragioni. Sull’Ilva si
capisce che a noi prema salvare il lavoro a Taranto, non è falso che
l’Europa abbia acciaierie in sovrappiù.
E quanto può aiutarci
trasgredire i vincoli di bilancio? La «flessibilità» ottenuta finora,
già ampia, come effetti di crescita vale non oltre un terzo rispetto
alla azione della Bce. L’austerità modello tedesco del «Fiscal compact» è
sempre più screditata nel mondo; non è però attraente, né
presumibilmente efficace, sostituirle vecchie pratiche di spesa pubblica
all’italiana.
Vedremo se questo gioco rischioso funziona. Tra i
numerosi guai dell’Europa, quasi tutti non si comprende come possano
essere risolti se non con strumenti collettivi. Occorre avanzare
proposte. Altrimenti a molti altri Paesi la disciplina teutonica, seppur
gravosa e scarsa di speranze, apparirà male minore rispetto a nostre
intemperanze di corto respiro.