martedì 19 gennaio 2016

La Stampa 19.1.16
intervista a Daniel Libeskind
La città del futuro ha bisogno di poeti
L’archistar davanti ai problemi dell’instabilità climatica e del surriscaldamento globale: “La nostra è un’arte sociale, è comunicazione Dobbiamo operare per la sostenibilità”
di Carlo Grande

Architetto e designer di fama internazionale, Daniel Libeskind è più un intellettuale che un archistar, figlio com’è di ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto: spesso la sofferenza dà più profondità all’esistenza. Ama la musica, la filosofia e la letteratura, vive a New York - ci arrivò da bambino prodigio, con una borsa di studio vinta suonando la fisarmonica - ma ama anche Milano, dove ha sede il suo secondo studio più importante, diretto dal figlio Lev, che cura progetti europei, asiatici e africani. I lavori di Libeskind significano originalità e architettura sostenibile; suo il masterplan per la ricostruzione dell’area del World Trade Center a New York (Ground Zero e Freedom Tower) e quello per «Citylife» della Fiera di Milano (e del progetto per residenze e terza torre), il Museo ebraico a Berlino, la Filarmonica di Brema, l’addizione al Victoria and Albert Museum di Londra.
«Il surriscaldamento globale e l’instabilità climatica sono un problema enorme», dice. «Architetti e urbanisti devono operare per la sostenibilità».
Lei lavora in tutto il mondo, da Berlino a Singapore e Hong Kong, in Sud America: sa quanto le metropoli siano inquinate.
«Per abbattere i gas serra dobbiamo creare sistemi e edifici intelligenti (con standard ecologici elevatissimi, ad esempio per annullare la dispersione termica), ridurre la dipendenza dalle auto private e aumentare trasporti pubblici e infrastrutture. Servono grandi pedonalizzazioni, verde, spazi pubblici e metropolitane, qualità dell’innovazione e dell’abitare, selezione dei materiali; bisogna ripensare l’uso della tecnologia, tornare alla tradizione: gli antichi avevano poche risorse ma sapevano costruire con materiali poveri».
Cos’è per lei la tecnologia?
«È innanzitutto “tecnologia mentale”, pensare più liberamente, mettere radici; il teorico americano David Owen nel libro Green Metropolis dice che città come Manhattan e Hong Kong sono più verdi di luoghi meno densamente popolati perché percentuali più elevate di abitanti si muovono a piedi, in bici o con trasporti pubblici, condividono servizi in modo più efficiente, vivono in spazi più piccoli e consumano meno energia per scaldare le case. La città può aiutarci a essere liberi».
La sua aria renderà liberi, oggi si direbbe renda molti più malati e soli.
«Ma ha potenzialità enormi: occorre connettere le persone, dar loro accesso al lavoro, aiutarle a vivere meglio. E questo dipende dalla volontà politica, dalle strategie a lungo termine. Il mercato del domani lo creiamo noi, se lo progettiamo».
Di fronte all’emergenza delle polveri sottili, nelle settimane scorse, alcuni politici speravano soprattutto nel cattivo tempo e facevano la danza della pioggia.
«È vero, ma anche in Asia ci sono committenze progressiste, sanno che il modello occidentale ha troppi limiti. Sono consapevoli dei problemi locali e globali. Ogni città richiede soluzioni specifiche, a New York come a Milano. Bisogna ”connetterle” e rispettare il genius loci. Non basta un po’ di verde sui balconi. La città sono le persone, l’empatia, i luoghi d’incontro. Sono il mondo, quello che il mondo produce. I desideri del mondo vengono dalle città: sono imprevedibili, misteriose».
Dove va l’architettura oggi?
«In molte direzioni, prima di tutto torna alle radici, cerca di capire cosa serve agli uomini. Tanti pensano che la tecnologia risolverà tutti i problemi, ma la cosa che dà speranza è comprendere la complessità umana. Servono meno tecnocrati e burocrati e più poeti, astronomi, letterati, danzatori. Più qualità e meno quantità».
Lei ricorda Lewis Mumford, newyorkese purosangue che analizzava «dal basso» gli edifici ed era implacabile contro architettura e urbanistica nemiche del bene collettivo.
«Sì, mi interessa il punto di vista dalla strada, cosa coinvolge la gente. L’architettura non è astrazione, è un’arte sociale, comunicazione. Il cuore dei problemi è la comunità. Possiamo iniziare un nuovo Rinascimento, l’architettura è di fronte a nuove scoperte. Mi ispirano le piccole città italiane e le metropoli come Torino e Milano, capolavori trasformati nei secoli, e i momenti di passaggio, i luoghi dove avviene il cambiamento, la nascita delle periferie… Andiamo verso un’architettura “vernacolare”, in India ad esempio, verso architetture locali».
Lei compie frequenti incursioni nel mondo dell’arte e della musica. A cosa lavora attualmente? Sempre diffidente verso le «sleek curves», le curve «gentili»?
«A maggio prenderà il via un grande progetto con la Filarmonica di Francoforte, ventiquattr’ore di spettacoli, concerti e postazioni musicali in tutta la città: ospedali, metropolitana, librerie, parchi. È vero, non mi piace l’idea di superfici “gentili”, la realtà è più complicata delle curve; ma ci sono molte eccezioni, ci sono “curve Libeskind” in “Reflections at Keppel Bay” a Singapore, nei tre grattacieli a Busan in Korea, nel palazzo residenziale a Covington negli Usa, nella galleria d’arte a Majorca, nel grattacielo di Varsavia e in quello a CityLife… Sono “curve acute”, una contraddizione molto Libeskind!».
Cosa augura per questo 2016 agli abitanti delle metropoli?
«Di avere quello che conta nella vita: pace, giustizia e integrazione, di “rispondere” agli altri, essere una porta aperta verso chi non conosciamo. Di accettare, incorporare, rendere tutti cittadini, perché la città è un enorme simbolo. Ha presente il film City of God? Penso alle periferie cittadine e mondiali (come l’Africa, sto lavorando in Kenya) ai luoghi e alla gente negletta».
E a se stesso?
«Mi auguro di continuare a sognare e desiderare, essere libero di camminare, parlare, lavorare. Spero in una vita piena, di essere veramente vivo».