La Stampa 18.1.16
Il fattore-Iran che spaventa l’economia
di Mario Deaglio
La
revoca delle sanzioni internazionali all’Iran, sospettato di voler
fabbricare la bomba atomica, è stata accolta, quanto meno nel mondo
ricco, con un senso generale di soddisfazione: è sembrata, e a molti
ancora sembra, come il punto di inizio di un’inversione di tendenza
rispetto all’impressionante flusso di notizie mondiali negative che,
all’incirca dall’inizio dell’anno, stanno contrassegnando le Borse,
l’economia e la politica di tutto il mondo. L’illusione che ci si trovi
davanti a un generico «vogliamoci bene» è durata poche ore (del resto,
la revoca delle sanzioni è avvenuta senza alcun sorriso e con pochissime
strette di mano): dopo aver scambiato con l’Iran alcuni prigionieri,
gli Stati Uniti hanno immediatamente reimposto le sanzioni, sia pure in
maniera limitata e senza coinvolgere gli alleati.
Si conferma, una
volta di più, che la realtà mediorientale non si presta a facili
semplificazioni e che dalla revoca delle sanzioni potrebbero derivare,
accanto a effetti positivi diretti e immediati, anche importanti effetti
negativi indiretti. Da un lato, la domanda iraniana di importazioni,
bloccata da oltre un decennio si rivolgerà principalmente all’Europa con
la forza di decine di miliardi di dollari iraniani detenuti all’estero
che, a seguito degli accordi raggiunti, saranno «scongelati». Alcuni
contratti importanti sono già abbozzati, come ricordava La Stampa di
ieri.
Per l’Italia in particolare, l’aumento di domanda derivante
dalla fine di sanzioni internazionali all’Iran potrebbe rappresentare
una sorta di parziale «compensazione» a fronte dei danni derivanti
all’economia italiana dalle sanzioni internazionali imposte alla Russia.
Vediamo
ora gli effetti negativi, tralasciando le conseguenze che potrebbero
derivare dall’attitudine non amichevole di Washington nei confronti di
Teheran: nel giro di poche settimane, l’Iran si prepara a inondare il
mercato petrolifero con almeno mezzo milione di barili aggiuntivi al
giorno, stando al suo ministro degli Esteri, il che farà aumentare di
almeno un terzo lo squilibrio tra un’offerta abbondante e una domanda
molto debole, visto l’elevato livello delle scorte già esistenti.
Un
tempo, una simile notizia sarebbe una stata salutata con giubilo dai
Paesi importatori, in particolare da quelli europei. Ora però che il
prezzo del petrolio ha già raggiunto livelli eccezionalmente bassi,
questo abbassamento non sembra essere nell’interesse di nessuno: non dei
Paesi esportatori ma neppure dei Paesi importatori, come l’Italia e
gran parte dei membri dell’Unione europea, che ricavano una parte non
trascurabile delle loro entrate fiscali proprio dalla tassazione del
greggio, legata al prezzo di mercato.
Negli ultimi giorni, segnali
d’allarme sono giunti da buona parte dei Paesi produttori, mentre le
Borse punivano con forti ribassi pressoché tutte le compagnie
petrolifere. In Venezuela, il presidente ha appena definito
«catastrofica» la situazione economica, proprio per la riduzione degli
incassi derivanti dall’esportazione di petrolio; in Nigeria, le
transazioni bancarie sono paralizzate dalla paura; negli stessi
ricchissimi Paesi del Golfo, le Borse hanno fatto registrare ieri cadute
pesantissime e i governi si preparano a chiedere prestiti sul mercato
internazionale.
In sostanza, il gioco petrolifero sembra essere
scappato di mano a tutti, in un Medio Oriente in cui il miscuglio tra
razionalità e religione si è ormai spostato nettamente a favore della
religione. La razionalità dei comportamenti dei produttori di petrolio
pare, infatti, un ricordo del passato e la componente religiosa è
largamente determinante. Il più che millenario conflitto tra i musulmani
sciiti (che hanno il proprio capofila precisamente nell’Iran),
appoggiati dalla Russia e i musulmani sunniti (che hanno nel territorio
dell’Arabia Saudita il principale centro religioso e l’origine dei
maggiori flussi di petrolio) determina i comportamenti dei governi e i
prezzi dei mercati. In un certo senso si può dire che il resto del mondo
vive sull’orlo di una guerra di religione che, per la sua intensità e
la sua violenza, fa impallidire la Guerra dei Trent’anni tra protestanti
e cattolici, scoppiata quasi quattrocento anni fa. E che ritardò
fortemente la crescita economica dell’Europa.