lunedì 18 gennaio 2016

La Stampa 18.1.16
L’abbraccio con la gente del ghetto “Conquistati dalla sua semplicità”
Ma c’è chi dice: “Perché non ha nominato Israele?”
di Giacomo Galeazzi

«È stato come ricevere la visita di un amico», si commuove Alberto Piazza, 49 anni. Accanto a lui, all’uscita dalla sinagoga, Livio Tagliacozzo, 48 anni, evidenzia «il calore di Francesco che, a sorpresa, invece di dirigersi direttamente alla poltrona a lui riservata nel Tempio Maggiore ha zigzagato tra i banchi per salutare il maggior numero possibile di persone: fuori da ogni protocollo, ha dimostrato quanto sia a suo agio in una sinagoga».
Franco Albertini, 55 anni, richiama la «consolidata consuetudine di Bergoglio con i fratelli maggiori fin dai tempi dell’episcopato in Argentina». Sul gelo meteorologico ha avuto la meglio la «comunicazione calda» tra il Papa e gli ebrei romani. Ermanno Tedeschi, 54 anni, richiama «l’ispirazione profetica» della prima visita, quella di trent’anni fa di Giovanni Paolo II a Elio Toaff. Nel segno dell’indimenticato rabbino morto nove mesi fa, anche Elisabetta Rossi Innerhoffer sottolinea «la travolgente informalità dell’approccio». Francesco, aggiunge, «ha conquistato tutti con la semplicità dei modi e la profondità delle riflessioni».
A colpire Sara Cividalli, 63 anni, è stata l’umiltà «nel richiamare la Chiesa di base piuttosto che quella d’apparato». Un flusso emotivo e spontaneo colto trasversalmente dalle generazioni. La 23enne Giorgia Calò ha rivissuto l’emozione di sei anni fa, quando al ghetto arrivò Benedetto XVI: «Ora abbiamo la conferma della centralità e continuità del dialogo tra ebrei e cristiani». Un entusiasmo condiviso da Gianluca Pontecorvo, 27 anni, che però ravvisa un limite: «Bergoglio parla di Terra Santa e non di Israele, le cose vanno chiamate con il loro nome». Tra i più coinvolti, Riccardo Pacifici, per sette anni, leader degli ebrei romani. «Ero nel coro all’altare quando venne Wojtyla, nel 2010 ho accolto Ratzinger e un anno e mezzo fa a Sant’Egidio ho consegnato l’invito in sinagoga a Francesco». E nota: «Per la prima volta una donna, la presidente della comunità Ruth Dureghello, ha parlato dall’altare». Francesco rende omaggio alla memoria di Stefano Gay Taché, il bimbo ucciso qui nell’attentato del 1982.
Quel giorno Alberto Di Consiglio, agente di commercio, stava accompagnando il figlio e la nipote alla benedizione dei bambini. È armato. «Mi ero svegliato con un brutto presentimento, c’era un clima pesante, l’antisemitismo si respirava per strada», dice. Oggi Alberto, a 65 anni, rivive quegli istanti: «Appena entro nel Tempio vedo due giovani alti e biondi, sembravano nordeuropei». Finita la cerimonia, «mi viene spontaneo appoggiarmi a un palo davanti all’ingresso, tengo gli occhi fissi su quei due che nel frattempo si sono spostati nello spiazzo». In un lampo, Alberto si volta: alla sua destra, sullo stesso marciapiede, un commando esce dal portone della casa dei rabbini. «Sventagliate di mitra e bombe sulla folla - ricostruisce -. Estraggo la pistola e la punto ma il carrello si inceppa». Intorno a lui grida e sangue. Gli attentatori scappano lungo via Catalana. «Erano arabi, nel frattempo non vedo più i due biondi». Mesi dopo Alberto viene convocato in questura: gli mostrano un libro che arriva dalla Germania Ovest. «Erano le foto segnaletiche degli estremisti di destra e sinistra sorvegliati dalla Bnd, i servizi segreti tedeschi». Si sente ancora un sopravvissuto: «Mi pento di non essere riuscito a sparare».