Corriere 18.1.16
L’abbraccio di Francesco agli ebrei
di Gian Guido Vecchi
ROMA
Arriva senza cortei, dal Lungotevere la Ford Focus blu s’infila
discreta nel ghetto. La Sinagoga è isolata e controllata da ottocento
agenti, ma Francesco ha chiesto di avvicinare più persone possibile.
Così la terza visita di un Papa al Tempio maggiore — dopo la sosta
davanti alle lapidi che ricordano il rastrellamento nazista del 16
ottobre ‘43 e Stefano Gaj Taché, il bimbo ucciso dai terroristi
palestinesi nell’attentato del 9 ottobre 1982 — inizia come non si era
mai visto né la prima volta di Wojtyla, nell’86, né con Benedetto XVI
sei anni fa: dopo l’abbraccio sulla soglia col Rabbino capo Riccardo Di
Segni, Francesco entra in Sinagoga tra gli applausi e per una ventina di
minuti va avanti e indietro tra i banchi per salutare e stringere mani,
fino ad abbracciare e baciare sulle guance i sopravvissuti ai campi di
sterminio.
Sono passati cinquant’anni dalla Dichiarazione
conciliare Nostra Aetate che segnò la svolta nel rapporto tra cattolici
ed ebrei. Di Segni ricorda che secondo la tradizione rabbinica «un atto
ripetuto tre volte diventa chazaqà , consuetudine fissa». Guarda il
Papa: «È decisamente il segno concreto di una nuova era dopo tutto
quanto è successo nel passato». E Francesco annuisce assorto mentre il
rabbino gli dice: «Interpretiamo tutto questo nel senso che la Chiesa
cattolica non intende tornare indietro nel percorso di riconciliazione».
Difatti
le parole del Papa segnano un punto di non ritorno, tanto più
importante tra i «conflitti, guerre, violenze ed ingiustizie» del
presente: «La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni
religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi
religioni monoteistiche. Dio è il Dio della vita». Francesco parla dello
sterminio di sei milioni di ebrei durante la Shoah e ricorda «col
cuore» i 1.021 deportati romani, «il passato ci deve servire da lezione
per il presente e il futuro». Cita «la bella espressione “fratelli
maggiori”» di Wojtyla e va oltre: «Voi siete i nostri fratelli e sorelle
maggiori nella fede». Richiama la Nostra Aetate : «Sì alla riscoperta
delle radici ebraiche del cristianesimo, no ad ogni forma di
antisemitismo». Spiega che «tutti apparteniamo a un’unica famiglia» e
«Dio ha per noi progetti di salvezza». Sillaba: «I cristiani non possono
non fare riferimento alle radici ebraiche e la Chiesa, pur professando
la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l’irrevocabilità
dell’Antica Alleanza e l’amore costante e fedele di Dio per Israele».
Continua ad annuire mentre la presidente della comunità, Ruth
Dureghello, cita le parole di Bergoglio al presidente del World Jewish
Congress («anche un attacco deliberato ad Israele è antisemitismo»),
ripete che «l’antisionismo è la forma più moderna di antisemitismo» e
dice: «La pace non si conquista seminando il terrore con i coltelli in
mano».
All’uscita, dal coro si leva Ani Maamin , «io credo», il canto che intonavano gli ebrei diretti alle camere a gas.