La Stampa 17.1.16
Juncker: “Se si chiudono i confini finisce anche l’unione economica”
Bruxelles: “La circolazione di persone e capitali è strettamente collegata, aumenterà la disoccupazione”
di Marco Zatterin
Spiazzati
dal clamore dell’ennesimo tassello del domino di Schengen che cade, gli
uomini del Team Juncker faticano a trovare un modo diverso per
rinfrescare il ritornello che ripetono da giorni. «Se entro il vertice
di febbraio non saremo riusciti a regolare il flussi dei rifugiati, la
libera circolazione dei cittadini rischierà di finire», confessa un
funzionario che risponde nonostante l’ora e il gelido giorno
semifestivo. L’ultimo a dirlo è stato il vicepresidente della
Commissione, Frans Timmermans. Ha avvertito che i governi devono attuare
gli impegni presi, dunque rafforzare le frontiere esterne, registrare
chi entra, cacciare chi non può restare. Bisogna agire in fretta. Perché
«resta solo un mese per evitare il peggio».
Sul caso austriaco
aspettano, vogliono capire. Vienna è una delle sei capitali che hanno
deciso di rimettere nel cassetto i patti firmati per la prima volta in
Lussemburgo poco più di trent’anni fa. Con determinazione variabile a
seconda dell’emergenza e delle tensioni politiche interne, anche
Norvegia, Svezia, Danimarca, Germania e Francia lo hanno fatto.
Stoccolma ha detto basta dopo aver registrato oltre 150 mila richieste
di asilo in dodici mesi. Berlino ha aperto e poi chiuso. Vienna ha
eretto in autunno un reticolato al confine «interno» sloveno. Facile per
le opposizioni radicali cavalcare il disagio sociale e agitare il
fantasma dell’invasione. Difficile fare l’unione (europea) con la forza e
cercare di rimettere le cose a posto.
La posta in gioco è alta.
Il presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, ha concesso poche
illusioni. «Nessuno parla del legame tra libera circolazione di
cittadini e capitali - ha affermato -: la fine di Schengen rischierà di
mettere fine all’Unione economica e monetaria. Il problema della
disoccupazione diventerà ancora più importante. Per questo bisogna
guardare alle cose nel loro insieme». Il grande mercato unico è fondato
sull’assenza delle frontiere. I controlli ai passaggi da un Paese
all’altro costano tempo e soldi, alle persone come alle imprese. «Addio
all’economia “just in time”», ha detto a La Stampa il capo
dell’Europarlamento, Martin Schulz.
«Sarebbe la morte del progetto
europeo», stima il commissario Ue agli Affari Interni, Dimitri
Avramopoulos. Il greco chiede da giorni «scelte coraggiose alle
capitali». Invano, sinora. È un circolo vizioso, ha spiegato in serata
una fonte diplomatica: «La paura del prezzo politico di mosse
assolutamente necessarie fa rinviare le scelte e aumenta la difficoltà
dell’azione, nonché il prezzo politico da pagare». La cosa che a
Bruxelles faticano a capire è come si possa indugiare davanti a
decisioni già prese. Il nervosismo è evidente nei quartieri europei
della capitale belga. Perché le cose vanno male e perché in giro c’è chi
comincia a pensare che il Team Juncker abbia chiesto troppo ai governi.
«Quest’anno
dobbiamo riportare Schengen alla normalità», recita il mantra di
Timmermans. Implica «ottenere chiari risultati sul recupero del
controllo delle frontiere e sulla riduzione dei flussi». È entrato un
milione di persone nel 2015 e la tendenza non rallenta. La Commissione
ha scritto regole per l’asilo e per una guardia di frontiera comune, ha
trattato un’intesa con la Turchia per rallentare i flussi. I leader che
non la seguono si incontrano il 18 febbraio. A Bruxelles dicono che sarà
il vertice del giudizio. Il dramma è che potrebbero aver ragione.