La Stampa 15.1.16
Per il consenso si abdica al bene comune
di Luigi La Spina
È
vero che la democrazia è fondata sul consenso, ma il modo con il quale i
nostri politici interpretano questa esigenza corre il rischio di
danneggiare gravemente gli interessi degli italiani, tradendo il mandato
per cui hanno ottenuto i voti dai cittadini, cioè la ricerca del «bene
comune».
Sia la rinuncia all’abolizione del reato di immigrazione
clandestina, sia la vicenda della riforma costituzionale costituiscono i
più illuminanti esempi di come sia così assoluta l’ossessione per quel
consenso, così prevalente lo scrupolo di non turbare l’alleato di turno,
così esasperata la valorizzazione dell’immagine mediatica del leader da
travolgere qualsiasi razionale esame sul merito delle questioni che si
affrontano. Con l’implicita e, qualche volta persino esplicita,
ammissione della resa al fondamentale compito di un politico, quello di
indirizzare l’opinione pubblica verso quelle soluzioni che si ritengono
più efficaci e più giuste.
Clamoroso sintomo della consapevolezza
di tale incapacità a esercitare il ruolo che dovrebbe competere a un
politico sono state le dichiarazioni di due ministri, Boschi e Alfano,
sul reato di immigrazione clandestina. Tutti e due, con una sciagurata
confessione pubblica, hanno ammesso candidamente di condividere
l’opinione generale di coloro che, magistrati e forze dell’ordine, tutti
i giorni si trovano ad affrontare il difficilissimo problema
dell’immigrazione di massa nel nostro territorio: lo sbandieramento
dell’accusa di reato davanti a questo esodo della disperazione non solo è
inutile, ma è un ostacolo grave a una accoglienza più controllata di
tali flussi immigratori. Ma all’abolizione di questo reato non si può
provvedere «perché gli italiani non capirebbero», interpretando il
provvedimento come un’apertura incondizionata e senza regole delle
nostre frontiere.
A parte l’offesa immeritata alla generale
maturità intellettiva dei connazionali, i due ministri hanno avuto il
merito di non nascondere ipocritamente i motivi di una precipitosa
marcia indietro rispetto a un’abolizione opportuna e urgente, ammettendo
la loro inadeguatezza a spiegare agli italiani le buone ragioni di tale
mossa e, con ciò, la loro scarsa credibilità e autorevolezza rispetto
all’elettorato. Risultato: agli italiani è stato arrecato il danno della
rinuncia a un provvedimento utile a fronteggiare meglio l’immigrazione
per l’incapacità di esercitare i compiti propri di una classe politica
in democrazia.
Un uguale sprezzo della ragione e del merito delle
questioni si è manifestato nella vicenda della riforma costituzionale e
nell’avvio della campagna elettorale per il referendum sulla nuova legge
che dovrebbe tenersi in autunno. Con l’aggravante di una questione di
grande rilevanza per il buon funzionamento delle nostre istituzioni. I
parlamentari di Forza Italia, dopo aver votato in prima lettura la nuova
legge imperniata sulla riforma del Senato, hanno cambiato idea solo
perché, dopo la fine del cosiddetto patto del Nazareno col Pd, «si deve
mandare a casa Renzi». Con l’incredibile conseguenza di trovare buona
compagnia tra i promotori del referendum, proprio gli storici, acerrimi
nemici di Berlusconi. Una ammucchiata sconcertante di «no», tenuta
insieme evidentemente solo dal desiderio di cacciare il leader Pd da
Palazzo Chigi e aiutata dallo stesso Renzi, voglioso di trasformare un
giudizio su una legge in un plebiscito a favore o contro di lui.
Gli
esempi citati del «malo modo» con il quale si fa politica in Italia
potrebbero facilmente moltiplicarsi. Basti pensare alla legge Fornero
sulle pensioni, approvata da un largo schieramento parlamentare durante
il governo Monti come l’unica, benché molto amara, medicina per
garantire il salvataggio dei conti dell’Inps e, ora, senza un partito
che riconosca di averla votata. Oppure al ridicolo balletto
sull’abolizione della tassa sulla prima casa, con una inversione del
giudizio di volta in volta, solo secondo chi l’ha decisa.
La
distorsione strumentale e miope, ormai senza più limiti, di un serio
esame del merito delle questioni e, soprattutto, della valutazione dei
concreti risultati delle leggi che sono state approvate dal Parlamento
si è allargata anche fuori dal recinto della politica per invadere tutto
il discorso pubblico nazionale. Un esempio, tra i tanti, la vicenda
della riforma del mercato del lavoro. Sintomatici i commenti dei
sindacati dopo la diffusione, da parte dell’Istat, degli incoraggianti
dati sull’occupazione in Italia. Invece di accogliere con compiacimento i
risultati del cosiddetto Jobs Act, magari esprimendo un condivisibile
timore per le possibili conseguenze negative della futura riduzione
degli incentivi alle aziende per le assunzioni, i leader delle
confederazioni sono sembrati quasi dispiaciuti che la realtà
sconfessasse le loro funeste previsioni sui concreti effetti del
provvedimento.
Gli italiani avrebbero il diritto di non vedere
così sacrificati i loro interessi da un mediocre gioco politicista in
Parlamento, in tv e sulle piazze. Come il diritto di conoscere il
contenuto delle leggi che si propongono per poter giudicare sul merito
delle questioni e non sui vantaggi elettorali di chi le approva. Così
potrebbero premiare la coerenza delle posizioni invece che la prontezza
con cui le si cambiano. Soprattutto, avrebbero il diritto di pretendere
il rispetto della loro intelligenza.