La Stampa 14.1.16
Mina Welby: c’è stato un salto culturale, i tempi sono maturi
“Non dobbiamo aver paura del morire”
intervista di Giacomo Galeazzi
È
la volta buona». Nel 2006 Piergiorgio Welby, affetto da distrofia
muscolare, chiese il distacco dal respiratore dopo essere stato sedato.
Sua moglie Mina, co-presidente dell’associazione Luca Coscioni, è
convinta che «stavolta la speranza è fondata». E aggiunge commossa: «Il
diritto all’eutanasia è strettamente legato al principio di
autodeterminazione, non dobbiamo aver paura del morire, ma dobbiamo
garantire a tutti una morte dignitosa».
L’eutanasia arriva in Parlamento: cosa è cambiato ora?
«C’è
stato un salto culturale rispetto alle precedenti legislature: è
maturata una sensibilità trasversale. Abbiamo raggiunto 225 parlamentari
di tutti i partiti, incluse Forza Italia e Lega. Si è diffusa una
sensibilità nuova, sia alla Camera sia al Senato, anche attraverso gli
incontri con malati gravissimi come Luigi Brunori, che ha condotto fino
alla fine la battaglia per la legalizzazione chiedendo al Parlamento di
calendarizzare la legge. È morto la settimana scorsa, da credente: non
di eutanasia, per interruzione di terapie».
Quando ha capito che, per la prima volta nella storia italiana, sarebbe stata esaminata la legalizzazione della dolce morte?
«Dai
confronti avvenuti a Santa Maria in Aquiro, oltre gli steccati
laici-cattolici, con malati e parlamentari di varie estrazioni. La
presidente della Camera, Laura Boldrini è andata due volte a trovare a
casa Max Fanelli che aveva mosso gli occhi, l’unica parte del corpo
ancora capace di farlo, per rifiutare le cure per la Sla. Il clima è
mutato, non ravviso più la volontà di distruggere progetti di legge. Da
cattolica chiedo che ogni cittadino abbia la libertà di scegliere. Dal
Parlamento dovrà uscire una legge che garantisca l’autodeterminazione.
Norma né proibitiva, né impositiva».
Una svolta. Ma su quali basi?
«L’articolo
32 della Costituzione, quello che al secondo comma stabilisce che
nessuno può essere obbligato a sottoporsi a trattamenti sanitari se non
per legge. Ma sia chiaro: nessuna norma può andare contro la dignità
umana. Le questioni fondamentali sono l’interruzione (o il non inizio)
delle terapie e il suicidio assistito, cioè la somministrazione di una
sostanza per aiutare a morire. Solo così i malati incurabili italiani
non dovranno più andare all’estero. Inoltre sono da estendere le cure
palliative sull’intero territorio. Non più a macchia di leopardo: adesso
sono più praticate più a Nord che al meridione».
Se il malato non può decidere?
«Né
il medico né i familiari possono scegliere per lui. Se è il malato
inguaribile è in coma e non può decidere, allora va accompagnato alla
morte con le cure palliative. Oggi in Italia chi ha i soldi può pagare
un medico che gli pratichi l’eutanasia o può andare in Svizzera. La
legge metterà fine all’ipocrisia che accade negli hospice ogni giorno.
Ora i tempi sono maturi».