La Stampa 13.1.16
Al capolinea
Un patto scellerato
di Lorenzo Vidino
«Zero
problemi con i vicini». Era questo il celebre motto con cui Erdogan e
Davutoglu ridefinirono la politica estera turca allorché il loro
partito, l’Akp, giunse al potere nel 2002.
Sospinta dal boom
economico e da un ritrovato fervore neo-ottomanista, la nuova Turchia si
vedeva come una potenza regionale, in progressivo allontanamento da
un’Europa che l’aveva respinta e volta a giocare un ruolo guida nel
bacino mediorientale. E l’Occidente stesso, Washington in primis, vedeva
gli «islamisti moderati» turchi come modelli per la regione e alleati
affidabili.
La realtà turca di oggi, dopo quasi quindici anni di
strapotere dell’Akp, è tutt’altra cosa. Internamente, Erdogan, dopo aver
coltivato un’immagine di moderato, ha chiaramente dimostrato forti
tendenze autoritarie. Nemici politici, militari, giudici e critici vari
sono stati eliminati con mezzi che vanno da investigazioni giudiziarie
kafkiane alle minacce a, in certi casi, violenza pura. E’ indicativo in
tal senso che «Reporters Senza Frontiere» metta la Turchia, Paese che
imprigiona più giornalisti di Cina e Iran, al 148o posto al mondo per
libertà di stampa. Le politiche di Erdogan hanno anche portato ad una
recrudescenza del terrorismo domestico, sia di matrice
marxista-leninista (con vari attentati compiuti dal gruppo Dhkp-c) che
curda (visto anche il fallimento dei colloqui di pace con il Pkk).
Ma
i recenti attentati di matrice jihadista in Turchia (di cui quello alla
piazza Sultanahmet è solo l’ultimo di una lunga scia) dimostrano il
totale fallimento della politica estera turca, in particolare
dall’inizio delle Primavere Arabe. Dapprima Erdogan ha supportato il
fallito progetto dei Fratelli Musulmani e delle loro emanazioni nella
regione, provocando le ire della maggior parte dei regimi arabi. Ma è
con l’inizio del conflitto siriano che la vera spirale turca ha inizio.
Il supporto cieco per l’opposizione crea tensioni per Ankara non solo
con il governo di Bashar al Assad, ma anche con l’Iraq e soprattutto
l’Iran, il grande protettore di Damasco. Per non parlare di Mosca, il
grande vicino del Nord con il quale le tensioni, in particolare dopo
l’intervento russo in Siria, sono al massimo.
Nonostante questi
crescenti problemi, Ankara ha continuato a sostenere vari gruppi
dell’opposizione siriana, incluse le più estremiste. I detrattori di
Erdogan, curdi in primis, parlano di aperto supporto da parte dei
servizi turchi all’Isis, con tanto di forniture di armi e intelligence.
Prove provate in tal senso mancano. Ma è evidente che per anni la
Turchia ha facilitato l’operato di vari gruppi islamisti operanti in
Siria, da Jabhat al Nusra all’Isis stesso, consentendo loro di agire
impunemente da entrambi i lati del confine turco-siriano. Che la Turchia
sia il punto di passaggio in entrata e in uscita per le migliaia di
foreign fighters europei (attentatori di Parigi inclusi) è risaputo.
Come è ben noto che il governo turco abbia consentito scambi commerciali
clandestini, quali quello del petrolio, che hanno permesso all’Isis di
arricchirsi.
Questa politica scellerata ha portato Ankara a
scontrarsi non solo con le varie forze regionali, mutando la politica
dello «zero problemi con i vicini» in quella del «molti problemi con
tutti i vicini», ma anche con l’Europa e l’America. Tutto ciò ha
comportato una scia di attentati di matrice jihadista che non pare
fermarsi. Negli ultimi mesi, infatti, da quando la Turchia, nonostante
le sue ambiguità, si è unita alla coalizione internazionale anti-Isis,
il network di cellule e strutture di supporto creato dall’Isis in tutta
la Turchia ha cominciato a mobilitarsi per compiere attacchi. Gli
obiettivi svariano dall’opposizione curda a turisti stranieri (com’è
accaduto ieri). Ma anche obiettivi militari, civili e politici turchi.
La strategia di Erdogan pare aver avuto un effetto boomerang e, ora che
il governo turco cerca di staccare il cordone che lo lega al jihadismo
in salsa siriana che ha nutrito per anni, non ci si può aspettare altro
che una risposta di sangue da parte dell’Isis.
Lorenzo Vidino è il direttore del Programma sull’Estremismo alla George Washington University