La Stampa 11.1.16
I giudici di pace ostaggio del reato di clandestinità
Sommersi da migliaia di fascicoli: un percorso a ostacoli costoso e senza sbocchi
di Francesco Grignetti
C’è
chi del reato di immigrazione clandestina sa davvero tutto. Sono i
giudici di pace, che decidono del futuro di questi disgraziati, e
stabiliscono con un colpo di penna chi va tra i sommersi e chi tra i
salvati. Per 10 euro a sentenza, al termine di un processo vero e
proprio, i giudici di pace stabiliscono infatti se il soggetto è
effettivamente un clandestino oppure no, e se deve essere espulso.
Maria
Flora di Giovanni, giudice di pace a Chieti, è la presidente
dell’Unione giudici di pace. Racconta: «Per fortuna, da qualche tempo si
è molto ridotto il flusso di fascicoli per questo reato. Un po’ per le
interpretazioni giurisprudenziali, un po’ perché era nell’aria l’idea
della depenalizzazione, mi risulta che in molte procure non si proceda
più».
Eppure di questi processi se ne fanno pur sempre a decine di
migliaia. La procedura non comincia più al semplice sbarco, ché le
procure archiviano eventuali denunce (oltretutto quelle denunce erano
assolutamente controproducenti perchè gli indagati non collaboravano più
al riconoscimento degli scafisti), ma soltanto quando ci siano le prove
documentali che un tale immigrato è nel nostro Paese da un periodo
congruo e che nel frattempo sia stato fermato più volte, abbia ricevuto
più ordini di espulsione dai prefetti, a cui non abbia obbedito.
In
questi casi, la polizia ha le prove certe di un percorso di
clandestinità e può presentare una denuncia ben motivata. Scatta
l’iscrizione al registro degli indagati. A quel punto, però,
l’immigrato, che generalmente ha dato generalità di comodo, pensa bene
di sparire dalla circolazione. Non lo si vedrà mai più in un’aula di
tribunale. Si lascia dietro un farraginoso e costoso processo.
Come
primo atto viene nominato un avvocato d’ufficio: costo medio a carico
dello Stato, 500 euro a difesa. Si inserisce poi il processo in agenda e
occorreranno almeno tre udienze per arrivare alla sentenza. In una di
queste è necessario che il giudice, alla presenza dell’avvocato, ascolti
la testimonianza del poliziotto o del carabiniere che ha effettuato
l’arresto e poi istruito la pratica. Così vuole la procedura penale. Ma
intanto sono giornate di lavoro perdute per l’agente o per il
carabiniere e si sa quanto striminziti siano gli organici delle forze di
polizia.
Finalmente, alla terza udienza, si giunge alla sentenza.
«Mi fa male - dice intanto la presidente di Giovanni - leggere certi
commenti di chi dice che noi giudici di pace decidiamo con leggerezza.
Tutt’altro. Anche se l’interessato non è mai in aula, prima di decidere
leggiamo gli atti, pur sapendo che è tutto lavoro a vuoto».
Già, a
vuoto, perché se la sentenza di condanna a una ammenda è scontata,
anche l’esito grottesco è scontato. Il clandestino, nullatenente e senza
dimora, dovrebbe pagare una multa tra i 5 e i 10mila euro. Figurarsi.
Questo particolare, però, alle cancellerie del tribunale non deve
interessare. E allora via con tanto altro lavoro a vuoto per notificare
multe inesigibili a indirizzi inesistenti.
«È un sistema kafkiano,
lo so. Ma è peggio quando in un Cie si decide per l’espulsione coatta e
l’espellendo è in sala. Allora viviamo pomeriggi di grande tensione,
con urla, insulti, tentate aggressioni. A Bari sono arrivati a urinare
addosso alle colleghe».