La Stampa 10.1.16
“La Chiesa condanna il peccato ma abbraccia il peccatore”
di Francesco
La
Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo è un
peccato. Ma allo stesso tempo abbraccia il peccatore che si riconosce
tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio. Gesù ha
perdonato persino quelli che lo hanno messo in croce e lo hanno
disprezzato. Dobbiamo tornare al Vangelo. Là troviamo che non si parla
solo di accoglienza e di perdono, ma si parla di «festa» per il figlio
che ritorna. L’espressione della misericordia è la gioia della festa,
che troviamo bene espressa nel Vangelo di Luca: «Ci sarà più gioia in
cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non
hanno bisogno di conversione» (15, 7). Non dice: e se poi dovesse
ricadere, tornare indietro, compiere ancora peccati, che si arrangi da
solo! No, perché a Pietro che gli domandava quante volte bisogna
perdonare, Gesù ha detto: «Settanta volte sette» (Vangelo di Matteo 18,
22), cioè sempre.
Al figlio maggiore del padre
misericordioso (il riferimento è alla parabola del Figlio Prodigo, ndr.)
è stato permesso di dire la verità di quanto accaduto, anche se non
capiva, anche perché l’altro fratello, quando ha cominciato ad
accusarsi, non ha avuto il tempo di parlare: il padre l’ha fermato e lo
ha abbracciato. Proprio perché c’è il peccato nel mondo, proprio perché
la nostra natura umana è ferita dal peccato originale, Dio che ha donato
suo Figlio per noi non può che rivelarsi come misericordia. [...]
Seguendo il Signore, la Chiesa è chiamata a effondere la sua
misericordia su tutti coloro che si riconoscono peccatori, responsabili
del male compiuto, che si sentono bisognosi di perdono. La Chiesa non è
al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore
viscerale che è la misericordia di Dio. Perché ciò accada, lo ripeto
spesso, è necessario uscire. Uscire dalle chiese e dalle parrocchie,
uscire e andare a cercare le persone là dove vivono, dove soffrono, dove
sperano. L’ospedale da campo, l’immagine con la quale mi piace
descrivere questa «Chiesa in uscita», ha la caratteristica di sorgere là
dove si combatte: non è la struttura solida, dotata di tutto, dove ci
si va a curare per le piccole e grandi infermità. È una struttura
mobile, di primo soccorso, di pronto intervento, per evitare che i
combattenti muoiano. Vi si pratica la medicina d’urgenza, non si fanno i
check-up specialistici. Spero che il Giubileo straordinario faccia
emergere sempre di più il volto di una Chiesa che riscopre le viscere
materne della misericordia e che va incontro ai tanti «feriti» bisognosi
di ascolto, comprensione, perdono e amore.