Repubblica 9.1.16
Wenders, l’attimo tra due foto dove comincia il cinema
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“Una volta”, saggio per immagini del regista di “Alice nelle città”
“Fissare il momento mi conforta di tutti i film che non ho fatto”
di Michele Smargiassi
Un
film, dice Wim Wenders, qualsiasi film, comincia con il secondo
fotogramma. Perché è solo quando due immagini dialogano che «inizia il
montaggio e si muove una storia». Le fotografie dunque sono film
potenziali, mai davvero iniziati: «Fare fotografie mi dà conforto per
tutti i film che non ho fatto». Ma fermarsi qui darebbe l’idea che
Wenders sia fotografo di risulta e consolazione. Tutt’altro.
Fra
i tanti registi che hanno fatto foto (da Lattuada a Tarkovskij, da
Kubrick a Kiarostami, da Tornatore a Van Sant), Wenders ha un pensiero
compiuto sulla fotografia, e la sua è opera fotografica a pieno titolo,
non hobby. Non da oggi, certo da molto prima di dedicare un film intero a
un grande fotografo, Sebastião Salgado. Ottima idea quella di
ripubblicare, più di vent’anni dopo, questo suo album- saggio, Una volta
(Contrasto editore, 397 pagg., 24,90 euro), titolo che fa pensare all’è
stato con cui Roland Barthes definì l’essenza del fotografico, ma in
modo più splendidamente ambiguo, visto che (forse solo in italiano)
una
volta si può intendere come nell’inizio delle favole, c’era una volta,
scaturigine di tutte le storie; ma anche come nostalgia
dell’irripetibile, una sola volta e mai più, l’immagine senza storia.
Anzi,
a ben vedere, la poetica del fotografico sta alla radice del cinema di
Wenders, tutt’altro che nascosta. L’irrequieto nomade di Alice nelle
città scatta compulsivamente con una Polaroid nel tentativo di dare un
senso al mondo, salvo poi imprecare: «Fare foto! Non viene mai quello
che avevi visto!». Anche il regista di Il cielo sopra Berlino cominciò
con la Polaroid e non per caso: è la fotografia che non si può
manipolare (non è così vero…), quello che ti dà devi prenderlo o
lasciarlo. E non puoi ripetere il ciak, perché la realtà intanto è
cambiata: una volta, una volta sola. Vivere il momento, dice Wenders a
Leonetta Bentivoglio nella bella intervista che apre il libro, questo
solo i bambini e i fotografi lo sanno fare.
Come
i grandi fotografi, Wenders lascia dunque il risultato alla fotocamera e
si riserva la scelta dello sguardo. «La mia prima professione è quella
di viaggiatore», e viaggiare fa rima con fotografare, da sempre. Portare
a casa pezzi di mondo. Nelle foto di Wenders, se mettiamo da parte i
ritratti (vivissimi, amicali) ai colleghi cineasti, c’è quasi sempre un
solo attore, il paesaggio. Preferibilmente smisurato e deserto. Un po’
Bruce Chatwin un po’ Caspar David Friedrich: tra stupore e sublime.
Wenders
sceglie, scatta e attende il «contraccolpo» della fotografia che
magicamente registra «il suo oggetto e, dietro, il motivo per cui questo
oggetto doveva essere fissato, mostra le cose e il desiderio di esse». E
il desiderio di Wenders è che i paesaggi diventino storie: «alcuni le
reclamano a gran voce». Ma questo accadrà solo a pochi di essi, nei suoi
film. Le sue fotografie restano la traccia di un incontro irripetibile e
senza seguito con un pezzo di mondo, un attimo di «ascolto del vedere».
Per
questo Wenders scatta ancora in pellicola. Pubblicato nel ’93, Una
volta annusa appena l’odore dell’incendio digitale. Ma sappiamo da
interviste più recenti com’è andata. «Ho avuto fotocamere digitali, le
ho regalate». I tecno-euforici miopi lo classificheranno come il solito
passatista, e sbaglieranno. «Per me fotografare significa essere qui ed
ora», ma «i fotografi digitali sono meno presenti quando scattano,
perché pensano «be’, questo dettaglio, questo cielo li cambio poi con
Photoshop». Ma per Wenders una fotografia è tale perché «tutto appare
sempre e soltanto una volta, e di quell’una volta, la foto fa poi un
sempre».